GLI UOMINI DELLA FRONTIERA (i Militi a Cavallo, 1860-1877)
Palermo, 30 aprile 1877
Li hanno convocati nelle prefetture di tutta la Sicilia con il pretesto dell’abituale ispezione delle armi e i militi a cavallo, non sospettando nulla, arrivano tutti in ghingheri, con le loro migliori uniformi e i cavalli perfettamente strigliati.
Quando entrano nel cortile della prefettura, con il comandante di sezione alla loro testa, notano la compagnia di bersaglieri intenta alle esercitazioni, ma non ci fanno caso più di tanto. A quei tempi non è rara la presenza di militari in forze all’interno delle sedi civili del governo, quindi i militi non ci trovano nulla di strano.
I militi si schierano con i loro cavalli dinanzi al prefetto e al questore di Palermo, al gruppo di ufficiali dell’esercito e di delegati di PS che li attendono. Tutto come al solito.
Al termine dell’ispezione invece di leggere il consueto discorso patriottico a base di Patria, Re e Bandiera, il prefetto legge il regio decreto con cui si annuncia lo scioglimento del Corpo, quindi si gira verso il comandante della compagnia dei bersaglieri, ora schierata anch’essa nel piazzale “Capitano, esegua!”.
E il capitano dei bersaglieri esegue, lancia un rapido ordine e i soldati scattano all’unisono, un plotone in piedi ed un secondo con il ginocchio a terra, i fucili Vetterli carichi e puntati verso lo schieramento degli uomini a cavallo. Sembrano due perfetti plotoni d’esecuzione.
I militi sono costretti a scendere di sella ed a consegnare le armi poi ufficiali e delegati iniziano una prima scrematura. Undici militi vengono presi in disparte e prelevati da uno stuolo di carabinieri che li ammanettano e li portano in galera prima ancora che riescano a rendersi conto di che cosa stia accadendo. Altri quindici vengono immediatamente espulsi dal Corpo e così accade ad alcuni loro ufficiali. I disorientati superstiti vengono arruolati in un neonato Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza a Cavallo nelle Province Siciliane, che presta giuramento il giorno successivo.
Lo stesso blitz avviene in tutta l’isola. Gli arrestati sono decine, quelli cacciati altrettanti e un centinaio vengono spediti al domicilio coatto sulle isole siciliane.
E’ la fine del Corpo dei Militi a Cavallo.
I Militi nascono l’8 giugno 1860, all’indomani dello sbarco dei Mille quando di fronte all’anarchia seguita al crollo del Regno delle Due Sicilie si comprende la necessità immediata di un corpo di polizia che tuteli l’ordine pubblico nelle campagne dell’isola. Si decide quindi di resuscitare le cosiddette Compagnie d’Armi, una forza pubblica che ha lottato (tra qualche luce e molte ombre) contro l’endemico brigantaggio siciliano già dall’epoca della dominazione spagnola e che è stata sciolta dal governo borbonico che l’ha sostituita con la Gendarmeria Reale. La nuova struttura, formata interamente da siciliani e ribattezzata Corpo dei Militi a Cavallo nelle Province Siciliane, dovrà combattere la criminalità isolana, specialmente il brigantaggio che, pur non essendo “politico” come quello che negli stessi anni sta sconvolgendo il resto del Meridione, impedisce il controllo del territorio alle autorità del neonato Regno d’Italia.
L’idea è buona, anzi ottima. I primi militi a cavallo sono uno specchio della Sicilia e dell’Italia postunitaria: liberali e garibaldini certo, ma anche ex membri delle Compagnie d’Armi e reduci delle polizie e delle armate borboniche. Un gruppo eterogeneo, ma che forse proprio per questo funziona.
Il Corpo, che per l’organizzazione e la disciplina nei suoi primi anni si basa sul regolamento delle Guardie di PS, è una struttura snella ed autonoma che pur facendo riferimento al Ministero dell’Interno e in ambito locale a prefetti, sottoprefetti e questori, non soffre di eccessive pastoie burocratiche, la condizione ideale per agire come la forza di rapido intervento per la quale è stato ideato. Interessante è anche il fatto che le spese relative ai Militi vengono affrontate parte dallo Stato e parte dai Comuni siciliani.
Un’altra cosa interessante del Corpo è che questo, a differenza delle altre polizie statali del tempo, è l’assenza di caserme dei militi e di conseguenza dell’obbligo di permanenza all’interno delle strutture, come è comune per tutte le Polizie statali dell’epoca, il che permette loro di non isolarsi dalla popolazione che sono chiamati a difendere. Infine più importante è che tutti i militi a cavallo sono siciliani, dal comandante della sezione al più giovane arruolato. Conoscono tutto del territorio in cui operano, dal dialetto alla mentalità degli uomini che combattono. Dopotutto sono cresciuti insieme negli stessi villaggi, hanno giocato insieme a loro da bambini, sono vissuti insieme sino a che le loro strade non si sono separate.
Sono queste alcune delle ragioni del successo dei militi, in un tempo in cui i carabinieri sono al massimo 3-4 in un circondario esteso a più comuni e i delegati di PS vivono asserragliati in qualche squallido ufficetto messo a disposizione dei municipi e possono considerarsi fortunati se riescono ad avere un commesso di questura a far loro da segretario e l’intervento dell’esercito, schierato in distaccamenti nei villaggi siciliani, serve soltanto a usare la manu militari nei confronti dei civili accusati di proteggere briganti e renitenti alla leva.
Già al momento della costituzione del Corpo però si vedono dei difetti.
Uno di questi è proprio il non accasermamento, da un punto di vista positivo come abbiamo detto ma che dall’altro, specie in un’epoca così “marziale” come l’’800 è vista con sospetto, poiché sottrae i militi al controllo dei superiori e li priva della necessaria (al tempo) disciplina militare.
Un altro errore causerà danni ben più gravi. Se un cittadino viene derubato ha il diritto di chiedere ed ottenere il risarcimento da parte del comandante della locale sezione dei militi, il quale lo rifonderà con il denaro prelevato da una cassa formata dalle trattenute sullo stipendio suo e dei suoi uomini. C’è una logica (per quanto perversa) in questa follia, sancita nel 1863 anche dal regolamento del Corpo, cioè il voler “costringere” i militi a prestar estrema attenzione al territorio da loro vigilato, se non vogliono rimetterci i loro stessi soldi. A volte funziona, altre no, perché succede che un comandante prenda contatto con i briganti “pregandoli” di andare a combinar guai da un’altra parte, in cambio di un paio di occhi ben chiusi sulla loro presenza, che spesso sono addirittura sigillati da una bella fetta di bottino.
E infine c’è forse il peggiore degli sbagli. Con la scomparsa della Gendarmeria e Polizia borboniche (del resto poco rimpiante) e nell’attesa della formazione di guardie di PS e carabinieri siciliani, nell’isola c’è bisogno urgente di uomini da impiegare in servizio di polizia e si guarda poco per il sottile negli arruolamenti. In teoria questi dovrebbero essere a prova di bomba. Il comandante della sezione propone un nome e lo sottopone al vaglio di una commissione formata da prefetto, presidente del tribunale, procuratore del re, un ufficiale dei carabinieri e di due membri “esterni”, solitamente due membri della deputazione provinciale. In teoria, dicevamo, perché in pratica la commissione si basa molto sui pareri provenienti dal luogo d’origine del candidato, a volte troppo, facendo entrare nel Corpo anche gente che solo con un eufemismo si può definire indegna. Alla lunga questi difetti si faranno sentire e provocheranno lo scioglimento del Corpo, nonostante i sacrifici affrontati dai militi a cavallo ed il sangue da loro versato.
Ancora non sappiamo se e quanti militi caddero in servizio nei primi caotici 18 mesi di vita del Corpo, tra il giugno 1860 ed il gennaio 1862. E’ possibile, ma la Storia ufficiale non ne parla. Dobbiamo arrivare al 2 gennaio 1862 per conoscere il primo nome, quello del capitano Antonino Varvaro, un giovane di 26 anni che ha combattuto contro i borbonici dopo lo sbarco dei Mille e che è comandante della sezione di Alcamo. Il 2 Gennaio 1862 interviene con i suoi uomini a Castellammare del Golfo, dove è esplosa una rivolta popolare contro la leva militare obbligatoria, costata già la vita ad alcuni liberali. Varvaro ha molto coraggio ma è impetuoso. Entra in paese insieme ai suoi uomini, convinto di riuscire a disperdere i rivoltosi i quali lo uccidono a fucilate e poi mutilano il suo corpo. Muore quello stesso giorno anche il milite Giuseppe Lazzara. La rivolta verrà poi repressa dai militari con una dura rappresaglia.
Varvaro e Lazzara sono i primi della lunga serie di Caduti del Corpo tra il 1860 ed il 1877, in una lotta sporca e feroce di cui il resto d’Italia ignora tutto, occupata com’è dalla guerra civile nelle ex Province Napoletane e dalle rivolte contro la tassa per il macinato a Nord. Tanto il brigantaggio siciliano non è “politico”, ma “normale” banditismo. I bravi borghesi del Nord e del Sud possono quindi non preoccuparsi e lasciare che i siciliani si accoppino tra di loro.
Nel libro “Cinque mesi di prefettura in Sicilia” di Enrico Falconcini, ex prefetto di Girgenti è riportata una cronaca tratta dal giornale agrigentino “lo Spartano” del 16 maggio 1863. Non è un articolo di stampa: è un bollettino di guerra
“… una banda di briganti nel territorio di Naro circuirono la casina del Massaro Alà, sequestrarono il figlio, che rilasciarono con lo scrocco di una somma che non si conosce. Nello stesso giorno, nelle stesse contrade, si verificarono furti di frumento, farina, accompagnati dalle solite busse….(vicino ad) Aragona una mano di briganti sequestrò un certo Licata, tassandolo per onze 400. Lo ritennero tre giorni tra la vita e la morte, e infine ci si assicura essere stato rilasciato collo scrocco di circa onze cento…in Castrofilippo…un tale Pasquale Geraci…fu sequestrato, e facendosi passare per tre giorni nei dolori dell’agonia, fu rilasciato al prezzo di onze 60. Nella borgata Milocca, provincia Caltanissetta, ci viene assicurato che entrata una comitiva armata di pieno giorno ne rapiva di 10 zitelle portandole non si sa dove; e quando vorranno restituirle…un milite della Compagnia di Girgenti a nome Calogero Messina da Camastra accompagnando un trafficante da Girgenti a Naro, … fu aggredito da 14 briganti, ed assassinato a colpi di coltello insieme all’infelice trafficante…”
ovvio quindi che in una situazione simile l’interno della Sicilia sia più simile al violento Texas di quegli stessi anni che ad una parte d’Europa e, del resto, se c’è qualcuno cui somigliano i militi a cavallo siciliani sono i Texas Rangers, individui duri e spietati come loro che negli stessi anni difendono dai fuorilegge la frontiera del Sudovest degli Stati Uniti.
Dalla Sicilia di quegli anni giungono molti racconti che lasciano a bocca spalancata i lettori del Continente.
Il 26 gennaio 1869 ad Alcamo una pattuglia di militi sorprende un latitante evaso mentre scontava vent’anni di lavori forzati. Il latitante cerca di fuggire, ma un milite gli è addosso. L’evaso apre il fuoco con una rivoltella, facendo saltare quattro dita all’uomo della legge. Chiunque, con una simile ferita desisterebbe, ma non il milite a cavallo che si scaglia contro l’evaso, lottando con la mano superstite e addirittura a morsi contro il brigante, sino all’arrivo degli altri membri della pattuglia che lo soccorrono e bloccano definitivamente il bandito. Purtroppo di quest’ uomo eroico, coraggioso, folle le cronache del tempo non riportano il nome.
Nel maggio 1873 in una violenta sparatoria tra la banda del brigante Biagio Valvo e i militi a cavallo di Termini Imerese viene colpito il milite Vincenzo Bonomo. L’uomo della legge muore tra le braccia del suo comandante: suo padre, il brigadiere Leonardo Bonomo. Per Valvo quell’omicidio è la propria condanna a morte. Leonardo Bonomo lo bracca insieme ai suoi uomini attraverso le Madonie, senza dargli tregua, sino a bloccarlo insieme ad un complice un mese dopo nei pressi di Alia. I briganti vendono cara la pelle, sanno che non ci sarà pietà per loro e sparano per primo uccidendo il milite Filippo Purpura. E’ l’inizio di un conflitto a fuoco al termine del quale Valvo ed il suo complice finiscono ammazzati. Ma al brigadiere Bonomo non basta e trasporta il corpo dell’assassino del figlio sino a Montemaggiore Belsito, il paese di nascita del brigante e qui accade una scena epica nella sua ferocia, degna di un crudo film western “crepuscolare”.
Prima di entrare nel centro abitato il brigadiere Bonomo lega con una corda il cadavere dell’assassino di suo figlio alla sella del proprio cavallo e quindi attraversa al piccolo passo il paese trascinando il corpo di Valvo nelle sue strade polverose, seguito dai suoi uomini. Non è difficile immaginare i militi mentre, sguardo duro e fisso in avanti e circondati da un silenzio attonito rotto soltanto dal rumore degli zoccoli e dallo strisciare del corpo di Valvo, avanzano lungo le strade del villaggio. Perché la famiglia del brigante “veda”, perché i briganti delle Madonie “sappiano” ciò che accade a chi tocca i militi a cavallo.
E’ il 26 settembre 1875 quando i militi di Sciacca, dopo giorni di serrata caccia all’uomo scoprono il nascondiglio del brigante Vincenzo Capraro nelle campagne vicino alla cittadina. Il bandito ingaggia con loro una sparatoria furibonda nel corso della quale vengono esplosi decine di colpi, sino a che il capobrigante viene abbattuto da cinque proiettili mentre un altro membro della banda rimane ferito.
E’ un grande successo e non c’è motivo di dubitare di quanto scrivono i giornali sull’entusiasmo degli abitanti di Sciacca e dei dintorni, finalmente liberati da un incubo. La Gazzetta di Girgenti è altrettanto entusiasta da trascrivere i nomi di tutti i cinque militi che per primi si sono scontrati con Capraro. Uno di loro è il milite Nicolò Maggio, un poliziotto di prim’ordine, un valoroso che, come dirà una breve cronaca proveniente dalla Sicilia ed apparsa sui giornali del Nord “aveva avuto parte efficacissima nell’operazione”, lasciando capire, nemmeno tanto tra le righe che è stato lui a sparare con la sua carabina Remington il colpo fatale che ha ucciso Capraro. E’ per questo che Maggio, viene ucciso due mesi dopo a Sambuca di Sicilia, in un agguato compiuto da due sconosciuti come vendetta per la parte avuta nell’eliminazione del Capraro. La cronaca non lo dice, ma Nicolò Maggio deve essere stato colpito alle spalle. Dopotutto, come si può pretendere che i suoi assassini affrontassero faccia a faccia l’uomo che aveva ucciso in combattimento uno dei più terribili banditi siciliani?
Di queste storie ce ne sono decine, nelle cronache del tempo. Storie di valore, di ferocia e di morte. Scontri a fuoco per difendere le diligenze porta valori, vere e proprie battaglie contro i briganti tra masserie e feudi isolati, agguati di cui rimangono vittime uomini di legge uccisi per aver creduto nel proprio dovere. Il sacrificio dei militi a cavallo è dimostrato dai circa quindici uomini uccisi tra il 1860 ed il 1877 in Sicilia, anche se con ogni probabilità la cifra delle vittime è molto più alta e di parecchie di loro non conosceremo mai il nome.
Gli echi di queste vicende raggiungono il Continente ma agli elogi per i militi giungono all’opinione pubblica anche le vivaci proteste di chi critica aspramente i comportamenti degli appartenenti al Corpo.
Ci sono racconti terribili. Militi che fanno a mezzo con i briganti. Militi che torturano gli arrestati per estorcere confessioni. Militi che decapitano i banditi uccisi da complici o dalla mafia durante regolamenti di conti, per presentare la testa alle autorità e riscuotere la taglia.
Mi piacerebbe poterti dire che sono tutte invenzioni da parte di politici “compagni di strada” della mafia o dei briganti, di assatanati nemici del Corpo. Purtroppo ciò che appare sulla stampa o negli atti parlamentari del tempo ha troppo spesso il sapore di un’amara verità.
Il colpo finale lo dà una severa inchiesta condotta nel 1876 dai parlamentari Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino sulle condizioni politiche e sociali della Sicilia. Franchetti e Sonnino, pur riconoscendo i meriti del Corpo e i comportamenti coraggiosi ed eroici di molti suoi appartenenti, è durissimo nel denunciare abusi e connivenze di troppi militi.
Ormai Roma non può più fingere.
Bisogna riformare o abolire del tutto i Militi a Cavallo, prima che la corruzione dilaghi distruggendo completamente ciò che di buono ha fatto il Corpo.
Nei primi mesi del 1877 il governo decide che è giunto il momento. Viene deciso così il “blitz” che abbiamo descritto all’inizio di questo racconto, deciso approfittando dello stratagemma dell’ispezione periodica, allo scopo di impedire una possibile rivolta degli uomini.
L’operazione riesce. I “cattivi” finiscono in galera o licenziati, mentre i “buoni” formano le Guardie di PS a Cavallo che affronteranno per altri quindici anni la criminalità e la sempre più onnipresente mafia sino al loro scioglimento ed all’incorporazione nelle Guardie di PS nel 1892, avvenute a quanto pare per “esigenze di bilancio”. Ma questa, come si usa dire, è un’altra storia.
I Militi a Cavallo scompaiono così dalla storia.
Che io sappia non esistono approfonditi studi storici sul Corpo e troppo spesso si preferisce liquidarlo con critiche sulle accuse di violenza indiscriminata e contiguità con il brigantaggio di molti militi, senza scavare più a fondo nella storia di quegli uomini di frontiera oppure si parla di loro in due righe striminzite quando si racconta delle origini del Reparto a Cavallo della Polizia di Stato.
Il nostro non è e neppure vuole essere uno studio scientifico sui Militi a Cavallo, non spetta certo a noi questo compito.
Noi ti abbiamo solo raccontato le storie di alcuni di quegli uomini di frontiera e attraverso le loro, di chi difese la propria terra nei primi 17 anni della nostra esistenza di Nazione. Ci auguriamo di averlo fatto nel migliore dei modi.
Come poliziotti, glielo dovevamo.
Fonti principali e opere consultate:
libri “ Briganti in Sicilia” di Salvatore Lo Presti, Gelka Editori 1996, “Cinque mesi di prefettura in Sicilia” di Enrico Falconcini, Firenze 1863, “Castellamare del Golfo (1 gennaio 1862)” di Francesco Bianco, UNI Service edizioni 2008; “Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861” di Giacinto De Sivo, Trieste 1868, “Condizioni politiche e amministrative della Sicilia” Leopoldo Franchetti, Universale Donzelli 2000 .
Intervento parlamentare alla Camera dei Deputati effettuato dall’onorevole Gabriele Calogero di Cesarò il 13 Giugno 1875, riportato dalla Gazzetta Piemontese del 15 giugno dello stesso anno.
Quotidiani “Perseveranza” “Gazzetta Piemontese” “Corriere della Sera” degli anni tra il 1860 ed il 1877
Decreto dittatoriale per l’istituzione dei Militi a Cavallo, 8 giugno 1860; Regio decreto nr. 1491 del 30 settembre 1863 e Regio Decreto nr 51 del 25 Gennaio 1871 con il regolamento dei Militi a Cavallo e relative modifiche.
Si ringrazia l’Ispettore Capo Luigi Menna per l’essenziale contributo e la preziosa collaborazione.
Per la redazione Cadutipolizia: Fabrizio Gregorutti