La strage scomparsa (l’eccidio alla Fiera di Milano, 12 aprile 1928)
LA STRAGE SCOMPARSA
(l’eccidio alla Fiera di Milano, 12 aprile 1928)
Avvertenze: alcune descrizioni degli avvenimenti potrebbero turbare le persone sensibili.
Più volte le vicende di protagonisti e personaggi si intrecciano nel racconto, formando un groviglio che appare a tratti inestricabile.
ABBREVIAZIONI USATE NEL TESTO:
GL : Giustizia e Libertà MVSN: Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale; PNF, partito nazionale fascista, PC d’I Partito Comunista d’Italia PS: Pubblica Sicurezza, RRCC: Reali Carabinieri
12 aprile 1928
La guardia scelta Giuseppe Esposito, Commissariato di PS Porta Magenta della Questura di Milano non dovrebbe trovarsi di servizio per la prevista visita di re Vittorio Emanuele III per l’inaugurazione della IX Fiera Campionaria a Milano. E’ un telefonista, uno specialista e potrebbe quindi rimanere tranquillamente al proprio posto, ma c’è bisogno di gente. E poi lui presta servizio negli Agenti di PS da appena sei mesi dopo sette anni nei Reali Carabinieri e con i suoi nuovi colleghi non vuole farsi certo la reputazione di fannullone. E poi, quante altre volte nella vita ti potrà capitare di vedere un Re?
Come accade sempre in queste occasioni a Giuseppe viene ordinato di prestare servizio in un determinato punto, per sorvegliare la folla. Perché c’è una gran folla, quel giorno in piazzale Giulio Cesare, la bellissima e grande piazza che accoglie i visitatori della Fiera di Milano. I milanesi sono accorsi a migliaia ed ora riempiono l’ampio piazzale, dove gli alpini del 5° reggimento si preparano al presentat – arm, in attesa dell’arrivo del Sovrano.
Vittorio Emanuele III, Re d’Italia
Giuseppe raggiunge il proprio posto, accanto all’ingresso del civico 18 di Piazzale Giulio Cesare, proprio dinanzi ad un lampione dell’energia elettrica, dal grosso basamento di ghisa sul quale si è arrampicata una bambina di sette anni, vestita con l’abito della festa e che guarda tutta eccitata l’ingresso della piazza, da dove tra pochi minuti arriverà il corteo reale. Ai piedi della colonna un bambino più piccolo, strilla alla bambina “Rosina! Voglio vedere anch’io! Voglio vedere anch’io!” mentre una donna, forse la mamma, sorride divertita.
Giuseppe dà uno sguardo alla folla attorno a sé. Operai, borghesi, famigliole, espositori della Fiera. C’è davvero tutta Milano, oggi.
Giuseppe si appoggia con il gomito sinistro al basamento del lampione. Quando arriverà il Re? Sono già le 10….
“… d’un tratto mi sentii portato contro quelli più vicini a me. Il mio udito fu lacerato da un colpo: un boato fragoroso, simile ad una cannonata. Quindi i miei occhi vennero abbagliati da una vampata alta tre o quattro metri, seguita da un fumo denso e nerastro. Tra le ultime immagini che i miei occhi ricordano è quella di un giovane che stava appoggiato con il gomito sinistro al basamento del pilone. Lo vidi lanciato a qualche metro, e rompersi tutto, come inondato di sangue…vidi ancora come una eruzione di lapilli dalla bocca di un cratere. Erano le schegge di ghisa del basamento lanciate a tutta forza violentemente in tutte le direzioni. La folla sembrò scindersi. Uomini, bambini, donne e soldati cadevano come falcidiati da una raffica di mitraglia. Urla di dolore, grida di invocazione e di soccorso. Aiuto! Aiuto! Erano le esclamazioni che maggiormente echeggiavano. Schegge da ogni parte, membra staccate dai corpi. Io caddi a terra e questa fu la mia salvezza” (la Stampa, 13 Aprile 1928)
questa è la drammatica testimonianza rilasciata ai giornali da un sopravvissuto all’esplosione della bomba che alle 10 del mattino, mentre il corteo reale parte dalla Stazione Centrale di Milano, ha ucciso all’istante quattordici persone (altre sei moriranno nei giorni successivi) e ferito decine di persone.
Tra le vittime la guardia scelta di PS Giuseppe Esposito, 28 anni.
I fratellini Rosina e Gian Luigi Ravera di 8 e 5 anni.
Natalina Ravera, zia di Rosina e Gian Luigi, morta in ospedale implorando i medici di salvarle il figlio Enrico di 3 anni, ferito a sua volta nell’attentato.
Luigi Solenghi, rappresentante di commercio. La sera prima era ritornato da un viaggio di lavoro e per rilassarsi aveva portato la famiglia alla Fiera.
Lina Bensussan, collegiale di 13 anni, si era recata in piazzale Giulio Cesare insieme alla ex domestica Giuseppina Bassi, di 32 anni, morta anche lei nell’eccidio e ai fratellini, rimasti feriti.
Gli alpini Pietro Ratti e Biagio Aldenghi, del 5° reggimento. Facevano parte dello schieramento di soldati in alta uniforme che dovevano accogliere il Sovrano. I giornali racconteranno che il papà di Pietro ai funerali mormorerà commosso “E’ morto per il suo Re”. Forse è vero, più probabilmente è una patriottica bugia della stampa, ma quella è un’altra Italia, nella quale il Re Soldato della Grande Guerra non è ancora il re fuggiasco di quindici anni dopo.
Natalina Dalla Cà, 22 anni, maestrina di Tortona, in visita a Milano dagli zii.
Noemi Casali, che abitava proprio davanti alla Fiera e stava assistendo dal balcone di casa allo spettacolo della piazza gremita. La bomba ha risparmiato i figli ed una vicina di casa che si trovavano con lei sul balcone. Non ha risparmiato lei.
Giovanni Cerizza, 42 anni. Lo riconoscerà il cognato tra le salme esposte al Cimitero Monumentale, dopo averlo cercato in tutti gli ospedali di Milano.
Costante Scotti, da Cornate d’Adda. Aveva raggiunto Milano per assistere all’arrivo del Re.
Domenico Reina. Anche lui è stato riconosciuto da un amico alla camera mortuaria, dopo un’affannosa ricerca negli ospedali milanesi.
Alfonsina Tarantini, 54 anni. E’ morta facendo scudo con il proprio corpo alla figlia ed alla nipotina.
Filippo Pezzenati, 51 anni. Anche lui aveva voluto assistere alla visita di Vittorio Emanuele III.
Nei giorni successivi si aggiungeranno al terrificante elenco il piccolo Enrico Ravera, figlio di Natalina che è morta implorando i medici di salvarlo. I medici cercano disperatamente di salvare il bimbo, tanto da essere costretti ad amputargli la gamba dilaniata. I giornali (e stavolta è vero) diranno che Enrico è stato cosciente durante l’operazione, tanto da mormorare al chirurgo delle parole che ci fanno stringere il cuore dopo tanti anni “Signor dottore, per carità, faccia piano, mi duole tanto”. L’abnegazione dei medici non servirà: Enrico si riunirà a sua madre pochi giorni dopo.
L’undicenne Luigi Gea. Era andato a vedere il Re insieme alla mamma, alla quale la bomba ha letteralmente strappato il figlio dalle mani.
Giuseppina Tognaccini, 56 anni, una patriottica maestra devota a Casa Savoia.
Il milite fascista Achille Beretta, 20 anni.
Venti morti, ai quali con ogni probabilità si aggiunsero alcuni feriti gravissimi morti nei mesi e negli anni successivi ma il cui decesso non venne reso noto dalla censura di regime.
Piazzale Giulio Cesare, poco dopo la strage
Un attentato al Re, uno spaventoso massacro. L’Italia intera è sconvolta dalla strage e non fa caso a un evento molto strano accaduto durante i funerali, quando alle 17 bare delle vittime morte tra il 12 ed il 14 aprile ne vengono aggiunte altre due, quelle di due militi della MVSN della Legione Carroccio uccisi in quello che viene definito eufemisticamente “un incidente”. Ma su costoro ritorneremo in seguito, come ritorneremo su una perquisizione eseguita dalla questura alla sede della squadra “Oberdan”, formata da fascisti di stretta osservanza repubblicana.
Nel frattempo il Regime vuole rapida vendetta. Nel suo telegramma al podestà di Milano, Mussolini parla chiaramente “….degli innocenti colpiti a morte dalla bestiale criminalità dell’antifascismo impotente e barbaro….”.
Iniziano le indagini e, per fortuna di coloro che negli anni successivi si alterneranno sul banco degli imputati, ad effettuare le prime analisi sulla bomba è il tenente colonnello del Regio Esercito Mario Grosso, della sezione staccata dell’Artiglieria di Milano. Un esperto rispettato, dalla professionalità indiscutibile e, soprattutto un uomo onesto.
La perizia (per chi è interessato un ampio estratto è disponibile nell’accurato ed imprescindibile libro “Attentato alla Fiera” di Carlo Giacchin, Mursia 2009) è estremamente accurata e precisa. Grosso identifica il tipo di esplosivo in dinamite o gelatina esplosiva, comprende che la bomba è stata piazzata dagli assassini nel vano del basamento del lampione perché l’effetto devastante dell’esplosione fosse stato aumentato dalle schegge di ghisa del supporto, intuisce che la bomba è stata attivata da un congegno ad orologeria e che “L’operatore e gli operatori sono persone molto pratiche di esplosivi e del loro più utile impiego” (Giacchin, op. cit, pag. 24).
Ma la perizia Grosso è uno dei pochi fari di luce in questa vicenda. In puro stile italiano inizia un’atroce e grottesca lotta che ci lascia ancora sbigottiti, nonostante sia trascorso quasi un secolo dalla strage.
Il Capo della Polizia, Arturo Bocchini
Cominciamo dal prima. Come scopriranno increduli gli ispettori generali di PS incaricati dell’indagine dal Capo della Polizia Arturo Bocchini, la Questura di Milano aveva ricevuto l’11 aprile una lettera anonima che segnalava i preparativi di un attentato al corteo reale, con il lancio di una bomba contro l’auto del sovrano. Il questore Pericoli aveva disposto l’arresto preventivo dei “soliti sospetti” (oltre 400 finirono in carcere la sera dell’11) e un servizio di vigilanza e prevenzione lungo tutto il percorso, diretto però ad individuare solo individui sospetti e non delle bombe occultate. Come concluderà l’ispettore generale Valenti nel proprio rapporto, se fosse stato disposto un servizio di piantonamento da parte di singoli agenti o pattuglie in piazzale Giulio Cesare, luogo d’arrivo del corteo, il massacro non avrebbe potuto avere luogo.
Nel frattempo è iniziato il balletto delle indagini.
1) la pista rossa. Mussolini ha affidato il comando dell’indagine al console della Milizia Ferroviaria Vezio Lucchini. Ufficialmente la scelta è dovuta al fatto che nel mese di aprile sono stati sventati due attentati alle linee ferroviarie sulle quali sarebbero dovuti transitare i treni con a bordo sia il duce che il Re. In uno dei casi addirittura un ferroviere ha notato due uomini mentre stavano deponendo la bomba e che alla vista dell’uomo si sono dati alla fuga. La MVSN attraverso un infiltrato, il quale risulterà poi alle dirette dipendenze dell’Ufficio Politico Investigativo della Legione “Carroccio” della Milizia, cerca di dimostrare la tesi di un complotto con radici all’estero, in Francia e a Mosca, arrestando i componenti di una cellula clandestina del PC d’I. C’è un problema: i militanti arrestati sono delle figure del tutto secondarie e le “prove” ottenute della Milizia anche grazie ad altri infiltrati, sono davvero labili anche per il Tribunale Speciale fascista. La “quadra” sembra arrivare il 14 aprile, quando la MVSN di Como arresta un giovane membro del PC, Romolo Tranquilli.
Romolo Tranquilli
Durante la perquisizione dalla tasca è saltata fuori tra le altre cose un foglio di carta sul quale è stata tracciata la piantina di quella che sembra una piazza. “Piazzale Giulio Cesare!” esclamano trionfanti i formidabili investigatori della Milizia, nonostante già dalla sera del 14 il colonnello Cerica, comandante dei RRCC di Como e futuro comandante generale dell’Arma, smonti la tesi della MVSN, la quale però non intende mollare. Tranquilli è una preda di prim’ordine. E’ infatti il fratello dell’alto dirigente del PC d’I Secondino, il futuro scrittore Ignazio Silone ed è stato trovato in possesso di materiale politico di estremo interesse, anche se non attinente alla strage. La Milizia tortura Tranquilli per costringerlo a “confessare” e attraverso testimonianze “pilotate”, cerca di accreditare la sua presenza in piazzale Giulio Cesare la sera dell’11 aprile, ma la tesi viene smontata dall’alibi inattaccabile di Tranquilli che lo dà ben lontano da Milano (anche se Tranquilli verrà prosciolto dall’accusa di strage solo un anno dopo) e dalla dimostrazione che la famigerata piantina trovata in suo possesso non è quella di Piazzale Giulio Cesare ma quella di una piazza di Como nella quale avrebbe dovuto incontrare il futuro segretario del PCI Luigi Longo. A verificare questo alibi ed a smontare la pista rossa è un commissario di PS, Carmelo Camilleri, sul quale ritorneremo. Alla fine di aprile quando l’inchiesta sembra avviata ad una rapida conclusione, con un processo a porte chiuse di fronte al tribunale speciale ed a una scontata fucilazione degli imputati, il capo della Polizia Bocchini si incontra a Milano con il console Lucchini. Non è un incontro, è uno scontro violentissimo. Arturo Bocchini smonta una per una le tesi accusatorie della Milizia contro la cellula del PC d’I, accusando le camicie nere di pressapochismo, faciloneria e incompetenza nella conduzione delle indagini. E’ la vittoria della Polizia e la sconfessione della Milizia, sancita dallo stesso Mussolini e dalla Commissione Istruttoria del Tribunale Speciale che valuta la cellula milanese per ciò che in realtà è: una manica di ingenui idealisti, incapace di riconoscere gli infiltrati al suo interno. Gli imputati nel 1929 vengono prosciolti definitivamente dall’accusa di strage, anche se verranno condannati per la ricostituzione del Partito Comunista.
Nel frattempo è accaduto qualcosa di strano: gli antifascisti in esilio hanno ricevuto e pubblicato ampi stralci delle deposizioni degli accusati e degli interrogatori. Ma qui ritorneremo.
Romolo Tranquilli, condannato a 12 anni di carcere, debilitato dalle sevizie subite, muore il 27 ottobre 1932. La ventunesima vittima di Piazzale Giulio Cesare.
2)la pista nera. Ricordate le bare dei due militi della “Carroccio”, allineate nel Duomo insieme a quelle delle vittime della strage? Ufficialmente si dice che le due camicie nere erano incaricate della protezione del Sovrano e che, morte in servizio per un “incidente”, le loro esequie dovessero essere svolte con quelle delle vittime dell’eccidio.
A quanto si legge in un comunicato dell’Agenzia “Stefani” del 13 aprile e sul Corriere del 14 al momento della distribuzione delle armi all’interno della caserma di Via Mario Pagano a Milano, un milite, mentre si allaccia il cinturone, tiene stretto tra le ginocchia il moschetto ’91. Dall’arma parte un colpo, che raggiunge la camicia nera al ventre e che “prende d’infilata un gruppo di militi” … risultato: due morti e tre feriti. Un proiettile “magico”, un po’ come quello di Kennedy a Dallas, dato che riesce a colpire cinque uomini uno dopo l’altro. Incidente improbabile, quindi. Resta da capire se l’evento, che ha visto accorrere in Via Mario Pagano anche Arnaldo Mussolini, il fratello del duce, sia collegato alla strage del giorno precedente oppure a tensioni tra varie fazioni presenti all’interno della “Carroccio”. E’ da rimarcare comunque che il primo degli infiltrati che dirige l’inchiesta contro la cellula comunista milanese è alle dirette dipendenze della “Carroccio”. Quindi, dando per assodata la non casualità della morte dei due militi, come sorprendersi se si è parlato di una sparatoria tra fazioni all’interno della caserma, alla fucilazione dei responsabili o addirittura allo scoppio accidentale di parte dell’esplosivo dello stesso tipo usato alla Fiera? Ma la pista interna viene privilegiata anche dagli investigatori della Polizia.
Si è conservata la trascrizione di un colloquio telefonico tra il Capo della Polizia Bocchini e l’ispettore generale Francesco Nudi a Milano “Abbiamo setacciato il campo degli anarcoidi e degli antifascisti, che sono ridotti a pochi; ma non ci è risultato nulla…. Anzi, io penso….” La risposta di Bocchini è secca “Che le ricerche debbano essere indirizzate in senso contrario, come per quelli di Bologna….” Nudi “Me lo avete levato di bocca, Eccellenza: bisognerebbe spostarsi verso Cremona…” (Giacchin, op.cit. pag. 68).
Le parole di Bocchini e Nudi sono chiare. Dopo un attentato subito da Mussolini a Bologna nel 1926 molti sospetti avevano colpito il ras del fascismo cremonese Roberto Farinacci e quello bolognese, Arpinati. Anche per Piazzale Giulio Cesare i dubbi coinvolgono l’interno del Regime, come dimostra la perquisizione effettuata quello stesso 12 aprile da agenti della questura di Milano nella sede del circolo “Oberdan”, sede dei fascisti di orientamento repubblicano e collegati al “federale” di Milano, il ras fascista Mario Giampaoli.
Perché sia stata eseguita la perquisizione alla “Oberdan” non si è mai capito, come non si è mai saputo se sia mai stato trovato qualcosa.
La sera stessa della strage si inizia però a parlare di uomini di Giampaoli come responsabili. Forse sono calunnie, messe in giro da nemici del ras milanese, come Farinacci ed Arpinati, che a Milano hanno ancora parecchi legami. La favola del fascismo duro e puro, formato da camerati fedeli all’Idea e amici l’un l’altro come bravi fratellini è una balla clamorosa, alla quale possono credere solo i laureati all’Università della Vita.
Gli odi all’interno dei “vecchi camerati” sono in realtà spietati ed i regolamenti di conti degni di quelli de “il Trono di Spade”
Inoltre bisogna rilevare anche un particolare mai abbastanza evidenziato dagli storici del Ventennio: è in quello stesso 1928 che si evidenzia il primo scontro tra Monarchia e Regime: è infatti quell’anno che il Gran Consiglio del Fascismo otterrà di poter mettere becco nella delicata questione della successione al trono. Ma sarebbe quello lo scopo di una strage “interna” solo un segnale da parte della frangia più estrema del PNF? Come viene ipotizzato per le stragi degli anni ’70, quella della Fiera non potrebbe essere stata ordita per stabilizzare ulteriormente il Regime e fare sentire a Palazzo Venezia la voce dei fascisti più duri e puri?
No, in piazzale Giulio Cesare nulla è ciò che sembra.
Ritorniamo ad un nome che abbiamo già incontrato, quello del commissario Camilleri, il poliziotto che verifica l’alibi di Tranquilli e smonta la pista rossa.
Carmelo Camilleri, 36 anni, è tutt’altro che un antifascista, dato che si è fatto le ossa lottando contro i “sovversivi” nelle Puglie e in Toscana. Una carriera in ascesa che però viene stroncata nel 1927 da tre trasferimenti nel giro di quattro mesi, prima a Roma, poi a Brindisi ed infine a Milano, dove arriva all’inizio del 1928. Una catastrofe professionale alla quale non è estranea probabilmente la morte della figlioletta. Quando viene chiamato a partecipare alle indagini sulla strage, Camilleri si convince della inconsistenza della “pista rossa” e comincia a credere che gli assassini siano molto più vicini e siano riconducibili al gruppo di Giampaoli. Uno dei collaboratori di Camilleri, il brigadiere Crespi, ottiene delle informazioni secondo le quali gli autori sono gli ex arditi della squadra “Oberdan”, uomini di Giampaoli.
La squadra “Oberdan”, non dimentichiamolo: la cui sede viene perquisita dalla questura il 12 aprile.
Camilleri, dopo essersi battuto per far riconoscere l’innocenza dei comunisti, di fronte ai propri sospetti sui fascisti milanesi si trova di fronte ad un autentico muro da parte del Tribunale Speciale e della stessa Questura milanese: Giampaoli è intoccabile.
In agosto, ufficialmente per motivi di salute, Camilleri lascia la Polizia andando a lavorare dall’avvocato di uno dei comunisti ancora sotto inchiesta e porta con sé le copie dei fascicoli dell’inchiesta, che farà arrivare ai giornali antifascisti d’Oltralpe. La loro pubblicazione contribuirà all’assoluzione definitiva della cellula milanese, ma porterà all’arresto di Camilleri e alla sua condanna a cinque anni di confino, amnistiati nel 1932, per il decennale del Regime.
Camilleri esce dal confino con la vita distrutta e nei dieci anni successivi la sua vita sotto il Regime sarà durissima, ma è solo grazie a lui che tre innocenti sono scampati al plotone d’esecuzione. La pista da lui proposta, la “pista nera” si è già arenata nello stesso momento in cui lui ha lasciato la Polizia.
3) Le piste minori. Va bene che in certi casi le indagini spaziano a 360°, ma per Piazzale Giulio Cesare si esagera.
In quel periodo delle piste inconsistenti cercano di collegare al massacro anche l’ex presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, in esilio dopo il delitto Matteotti, ma esistono anche una serie di piste altrettanto evanescenti proposte da una serie di infiltrati, delatori e antifascisti “pentiti” residenti all’estero ma che non reggono ai precisi riscontri della Direzione Generale di PS. Per un periodo si presta attenzione ad un’assurda pista armena.
Per un certo periodo prende corpo la pista anarchica, proposta dal questore Giovanni Rizzo, una leggenda della Questura di Milano ma nel 1928 praticamente in disarmo. Rizzo (del quale racconteremo la carriera in un altro momento) nel 1921 ha arrestato i tre anarchici responsabili della strage al teatro Diana, costata la vita a 21 innocenti ed è convinto che il massacro di Piazzale Giulio Cesare abbia la stessa matrice. Peccato per lui che il movimento libertario in Italia non sia più quello di sette anni prima. Fa arrestare una mezza dozzina di anarchici, gestisce i testimoni in modo a dir poco spregiudicato, produce tonnellate di inutile carta, ma indizi nulla. Una pagliacciata, tanto che sarà lo stesso Bocchini a chiedere a Mussolini la liberazione degli arrestati. Sulla richiesta di Bocchini, sarà lo stesso Uomo del Balcone a scrivere “Sta bene. M.”
Rizzo finisce la sua carriera in maniera ingloriosa. Diventerà la “balia” di Gabriele d’Annunzio. Un confinato che sorveglia un altro confinato, per quanto di lusso.
A destra, il questore Giovanni Rizzo
Altra pista è quella della Giovane Italia, un movimento di ispirazione repubblicana al quale partecipano persone che nel secondo dopoguerra diventeranno Storia. Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Leo Valiani, solo per citare alcuni dei loro nomi. Contro la Giovane Italia non c’è però alcuna prova e i suoi appartenenti verranno condannati solo per reati riconducibili al loro antifascismo.
Ma una nuova pista si apre nel 1930, con protagonista una nuova struttura della Polizia, dal nome inquietante: l’OVRA.
4) la pista Giustizia e Libertà. E’ nel dicembre 1930 che una ancora sconosciuta sezione della Direzione Generale di PS chiamata OVRA arresta i componenti di una organizzazione antifascista chiamata appunto Giustizia e Libertà.
L’OVRA, il cui acronimo verrà tradotto in Opera Vigilanza e Repressione Antifascismo (anche se probabilmente la sigla venne scelta solo per il suo suono misterioso ed inquietante) è l’occhio del regime, impiegato nella lotta ai nemici interni del fascismo, ha iniziato ad indagare su GL da qualche mese, dopo una serie di azioni dimostrative di questa organizzazione.
GL è nata nel 1929, fondata dagli antifascisti Gaetano Salvemini, Carlo Rosselli, Emilio Lussu, gli ultimi due evasi nel luglio dello stesso anno dal confino di Lipari. E’ un gruppo che, fatta salva la pregiudiziale repubblicana, si propone di riunire intorno a sé l’antifascismo non comunista.
Nel 1930 l’organizzazione ha già una rete clandestina nel Nord Est d’Italia e in altre importanti città, con figure di prestigio come a Milano Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi. Ed è proprio nel gruppo milanese di GL che entra l’avvocato udinese Carlo Del Re.
Del Re viene considerato un militante prezioso ed entusiasta e viene messo a parte del progetto di GL, l’esplosione simultanea nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre 1930 di una serie di bombe in sei sedi dell’intendenza di finanza di altrettante città italiane, in contemporanea con il lancio di alcuni volantini antifascisti su Roma. A confezionare le bombe, con una miscela micidiale di esplosivo al fosforo, è il giovane chimico Umberto Ceva, così bravo che quando fa esplodere una di queste bombe per un test, lo stesso Ceva si spaventa. Pur di evitare un qualsivoglia incidente al personale delle intendenze di finanza, all’insaputa dei compagni, in presenza di Del Re, finge un incidente alle bombe e le disattiva immergendole nell’acqua, ma Del Re insiste per eseguire almeno un attentato, venendo però bloccato dal risoluto no di Ernesto Rossi. Le bombe vengono gettate nel fiume Brembo.
Umberto Ceva
Ciò che il gruppo milanese di GL ignora è che Del Re è diventato informatore dell’OVRA per il più banale dei motivi. Il buon avvocato si è mangiato i soldi dei clienti al tavolo delle carte e, per non finire in galera, offre all’OVRA la struttura di GL. Di ogni gesto ed ogni decisione del gruppo viene portato a conoscenza l’ispettore Francesco Nudi, della Prima Zona OVRA di Milano, il cui scopo è quello di lasciare fare i giellisti sino al momento della collocazione delle bombe negli uffici delle intendenze di finanza per poi arrestarli tutti.
La decisione di Ceva scombina in piani dell’OVRA, che comunque recupera gli ordigni e il 30 ottobre 1930 procede all’arresto dei membri di GL e della massoneria, della quale molti giellisti sono membri.
L’ OVRA si convince della responsabilità di GL nella strage della Fiera, anche se il comportamento di Ceva non è esattamente quello che ci si può aspettare da uno stragista. Vengono analizzate le bombe recuperate dal Brembo, questa volta da un esperto che non è il colonnello Grosso, il quale viene estromesso dalle indagini su GL.
Gli ispettori Nudi e Petrillo iniziano l’interrogatorio di Ceva, e il primo assume il ruolo dello sbirro buono. No, a differenza di Romolo Tranquilli Ceva non viene torturato. L’OVRA non è composta da quel mucchio di dementi della MVSN. Nel gioco delle parti Petrillo è il poliziotto rigoroso che incalza Ceva, mentre Nudi si assume il ruolo dell’avversario leale. Nudi conquista la fiducia di Ceva parlando della strage alla Fiera, discutendo con l’arrestato (insinuando, secondo gli storici Giacchin e Franzinelli) della possibilità che alcuni membri di GL possano avere compiuto il massacro.
Lui, dice l’ispettore Nudi, è un idealista circondato da uomini malvagi. Lui, Ceva, di certo non lo avrebbe mai voluto, ma è stato inconsapevolmente complice degli stragisti del 12 aprile. Non vorrebbe forse aiutarlo a capire ed a incastrare gli assassini?
Umberto Ceva inizia a cedere. Le parole di Nudi colgono nel segno e probabilmente apre qualche spiraglio, a definire qualche particolare. Anche se i colloqui non verranno verbalizzati, si ha notizia delle cosiddette “confidenze Ceva”, carte che secondo gli storici sarebbero dovute essere la base per l’imputazione per strage contro GL.
Il 12 dicembre 1930 l’ispettore Nudi chiude l’indagine contro GL e accade qualcosa di sorprendente. Nelle carte inviate al Tribunale Speciale non viene fatto alcun riferimento al massacro di Piazzale Giulio Cesare. Perché? Perché Nudi si è reso conto che Ceva non può riferirgli nulla di utile? Perché si è convinto dell’innocenza di GL? Perché le “confidenze Ceva” non sono ancora abbastanza robuste da consentire il rinvio a giudizio e la condanna del gruppo di GL?
Non lo sapremo mai perché il potenziale principale teste d’accusa, Umberto Ceva, si toglie la vita in carcere. Nella sua lettera d’addio all’ispettore Nudi è molto chiaro “.. mi uccido avendo la coscienza tranquilla e le mani pulite. Se avessi avuto o mi fosse stata data la prova, o almeno avessi avuto la certezza morale verrei al processo senza preoccuparmi di me stesso. Dalle mie mani non è mai uscito nulla che potesse fare male ad anima viva. Ma poiché la prova manca, passando l’incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile, io sento che non potrei resistere e diventare l’istrumento di uno spaventoso procedimento indiziario, che del resto le circostanze giustificherebbero…”
Non ricordiamo chi disse che un uomo in punto di morte non può mentire, ma quella sincerità si avverte nella lettera di addio di Ceva, che invitiamo a leggere integralmente. Nelle sue parole si può avvertire però anche il tormento di un uomo onesto che non vuole rovinare degli innocenti, ma anche di chi è assalito da atroci dubbi “l’incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile” . Già…. forse.
Il suicidio di Umberto Ceva è un brutto colpo per l’immagine internazionale del regime, che viene accusato della morte del detenuto. Il ruolo dell’infiltrato Del Re viene denunciato dagli antifascisti in esilio e l’attenzione dell’opinione pubblica estera si sposta sul processo agli appartenenti ai giellisti. Ai giornalisti stranieri viene concesso di presenziare alle udienze che si concludono con condanne severe per i reati politici. Piazzale Giulio Cesare non viene però addossata agli accusati. Il suicidio di Ceva lo ha reso impossibile.
Le “confidenze Ceva” riprendono vigore però alla fine del 1931 quando l’ispettore Nudi scrive in un promemoria indirizzato ai propri superiori di essere stato informato dal giellista suicida del diretto collegamento tra la strage alla Fiera e due falliti attentati dinamitardi all’Arcivescovado di Milano dei quali sarebbe stato responsabile un operaio milanese, tale dante Fornasari, il quale sarebbe stato fatto espatriare da un antifascista appartenente a GL, Vincenzo Calace condannato a dieci anni nel processo contro l’organizzazione.
Mettiamo le mani avanti. Se davvero Ceva fece il nome di Fornasari e Calace è difficile capire come mai questi fatti non vennero citati nell’istruttoria inviata al Tribunale Speciale. Come è difficile capire come mai Nudi trova un qualsiasi collegamento tra la bomba di Piazzale Giulio Cesare, confezionata da mani esperte e quelle dell’arcivescovado che, secondo il colonnello Grosso, sono a dir poco maldestre.
C’è una sola spiegazione: attraverso le “confidenze Ceva” l’ispettore Nudi copre un infiltrato: o l’avvocato Del Re oppure un altro informatore sconosciuto all’interno di GL. Nonostante ciò la pista si arena nuovamente, nonostante un vano tentativo di ridarle vita da parte di un altro ottimo poliziotto, Guido Leto.
Guido Leto (primo da sinistra) insieme al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, nel Dopoguerra
5) la nuova pista su Giustizia e Libertà. L’estate del 1931 è contrassegnata da una serie di attentati, con l’esplosione di alcuni pacchi bomba inviati dall’estero. Muoiono tre persone, due operai delle ferrovie e un brigadiere dei carabinieri mentre vi sono diversi feriti.
Una cosa che risalta è che a differenza degli attentati dimostrativi di GL chi invia i pacchi grazie ad un colpo di fortuna, l’esplosione accidentale di una bomba che ferisce uno dei terroristi ed uccide sua madre. Da lì gli inquirenti, guidati dall’ispettore Guido Leto riescono a risalire ad un ingegnere bellunese di nome Giobbe Giopp.
Tra il 1927 ed il 1928 Giopp insieme ad un gruppo di repubblicani di sinistra ha programmato una serie di attentati dimostrativi al fine di scoraggiare i gruppi finanziari stranieri dall’investire in Italia. Il gruppo è però pesantemente infiltrato dalla Polizia e il 21 marzo 1928 Giopp viene arrestato.
Ciò che è interessante è che dai giorni successivi all’arresto di Giopp il Ministero dell’Interno e quelli delle Forze Armate lanciano l’allarme ai comandi periferici per attentati contro edifici pubblici in tutta Italia. Il 10 aprile 1928, due giorni prima della strage, dalla direzione della polizia politica viene lanciato l’allarme per la possibilità di attentati a strutture industriali.
Quindi, riepiloghiamo: un gruppo antifascista progetta attentati, la direzione generale di PS viene informata di ciò, pochi giorni dopo una bomba dilania 20 innocenti e uno dei massimi esponenti di questo gruppo, Giobbe Giopp, non viene deferito al tribunale speciale ma inviato al confino dopo pochi mesi di galera. Confino durante il quale riceve agevolazioni a dir poco incomprensibili, come una serie di “licenze” per motivi di studio. Come quella che gli permette di scappare, nel luglio 1930, e di raggiungere Parigi.
Qui Giopp si dà parecchio da fare. Partecipa alla nascita di una nuova organizzazione antifascista la “Giovane Italia”, che a parte il nome non ha nulla a che fare con quella annientata dalla Polizia nel 1928, programma altri attentati, come quelli dell’estate 1931, scrive opuscoli informativi, indaga su presunte spie, scrive sui giornali antifascisti fuori dell’Italia e sulla stampa clandestina distribuita entro i confini del Regno, denuncia nel novembre 1930 il processo subito da Giustizia e Libertà. L’OVRA non la prende bene e, nel gennaio 1931, fa pubblicare dal giornale romano “la Tribuna” un memoriale scritto in carcere da Giopp nel 1928 in cui l’ingegnere bellunese fa i nomi degli altri componenti del proprio gruppo. Giopp è compromesso di fronte agli altri fuoriusciti, tanto che nel Dopoguerra la vicenda sarà al centro di una controversia giudiziaria con altri antifascisti del calibro di Gaetano Salvemini. Controversia che, è doveroso precisarlo, vedrà l’ingegner Giopp vincitore.
Ritorniamo al 1932. Attraverso alcuni infiltrati dell’OVRA, l’analisi di un messaggio sul luogo di un precedente attentato e un uso spregiudicato delle “confidenze Ceva” la Polizia si convince della responsabilità di Giopp nella confezione della bomba di Piazzale Giulio Cesare e coinvolge nuovamente Giustizia e Libertà nell’inchiesta, facendo il nome di Fornasari, coinvolto negli attentati all’Arcivescovado. Ciò nonostante l’evidente differenza tra le bombe confezionate da Ceva, quelle rinvenute all’arcivescovado di Milano e quella di piazzale Giulio Cesare. Mancano però altri riscontri e la pista si arena di nuovo per riprendere corpo nel 1935, quando alcune testimonianze sembrano far riaprire il caso, coinvolgendo stavolta Fornasari, indicato come autore materiale del massacro. Le testimonianze però sono talmente contraddittorie e inconsistenti che lo stesso Tribunale Speciale preferisce lasciare perdere.
Trascorrono gli anni. Nel 1940 il potente capo della Polizia Arturo Bocchini muore. Il suo unico cruccio, secondo Guido Leto, fu di non essere riuscito ad individuare i responsabili dell’eccidio del 12 aprile 1928.
Le indagini su Giustizia e Libertà sembrano riprendere vigore dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini. Si coinvolge nuovamente Fornasari, riemerge il nome di Giopp, si indaga sui vertici di GL, ma l’indagine si blocca, esattamente il 7 settembre 1943.
Il giorno dopo la Prima Italia, quella monarchica, si suiciderà con l’Armistizio.
Conclusioni:
La strage della Fiera servì come un’arma per colpire l’opposizione al regime fascista. Comunisti, repubblicani, giellisti, anarchici e fascisti dissidenti vennero raggiunti uno dopo l’altro dall’accusa infamante di responsabilità nella strage. Il controllo dell’apparato poliziesco sul Paese raggiunse livelli sino allora mai visti in Europa Occidentale. Le leggi speciali vennero mantenute anche “grazie” a quell’orrendo massacro.
Ma basta questo ad accusare il regime per l’orrore del 12 aprile 1928?
Chi può leggere quanto è stato scritto sulla strage (poco, in verità) riporta la netta impressione che nemmeno Mussolini volesse scavare a fondo sull’eccidio di piazzale Giulio Cesare, forse perché sapeva bene chi vi si trovasse dietro, nel timore di scoprire la verità.
Ma che dire degli antifascisti?
Perché nessuno di loro nel Dopoguerra chiese la riapertura delle indagini, perché la magistratura dell’Italia libera nata il 25 aprile 1945 non tentò di dare giustizia alle vittime?
La risposta è in quell’“incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile” scritto da Umberto Ceva prima di togliersi la vita.
Forse.
E’ quell’avverbio a colpire gli antifascisti che si richiamano all’esperienza di Giustizia e Libertà. Come Ceva sono tormentati dal dubbio che qualcuno di loro possa avere una diretta responsabilità nel massacro, in inconfessabili legami con fascisti o addirittura apparati istituzionali.
E, forse, non è solo un dubbio.
Ma le nostre, come quelle degli storici che negli anni si sono dedicati alla ricostruzione degli eventi, sono solo ipotesi. La strage della Fiera di Milano è un mistero inestricabile, nel quale non si riescono ad individuare responsabilità e moventi, e nel quale si legano antifascisti pentiti e corrotti, fascisti dissidenti o “stabilizzatori”, faccendieri, provocatori e spie.
Dopo quasi un secolo i responsabili materiali dell’orrore di Piazzale Giulio Cesare sono ancora nascosti nell’ombra e, a meno di qualche improbabile scoperta d’archivio, vi rimarranno per sempre.
Rimangono quei venti martiri, quelle vittime dilaniate sul selciato di Piazzale Giulio Cesare (dove oggi nulla ricorda lo scempio del 12 aprile 1928) o morte nei giorni e nei mesi successivi negli ospedali milanesi.
Rimangono le ultime parole del piccolo Enrico Ravera, di tre anni, morto dopo essere stato amputato, e che a distanza di quasi un secolo provocano dolore e rabbia
“Signor dottore, per carità, faccia piano, mi duole tanto”
Fonte “Attentato alla Fiera” di Carlo Giacchin, Mursia 2009, quotidiani “Corriere della Sera” e “la Stampa” del 13 aprile 1928 e successivi
Buongiorno (pregasi scusare il mio imperfetto italiano).
Lo so che il fascismo milanese, talvolta anche detto gianpaolista, aveva degli aspetti particolari -e comunque elementi suoi possono essere stati qui operanti- pero mi sembra poco convincente la rapidità della transizione qui fatta, dal -chiaramente troppo dimenticato dagli storici- progetto di legge del febbraio 1928, alla responsabilità di questi elementi, attraverso la domanda : “Ma sarebbe quello lo scopo di una strage “interna” solo un segnale da parte della frangia più estrema del PNF?”
Non è, che io voglia ad ogni costo coinvolgere lo stesso Mussolini, però farò anche io una domanda più avanti. Come qui ricordato : il progetto di legge attribuiva al Gran Consiglio fin al diritto di decidere… la successione al trono. Altrettanto dire che questa volta il re, che aveva sempre firmato tutto ed il resto, non poteva decentemente firmare… la fine del mestiere di re : fece sapere che non firmerebbe.
E’ chiaro che attraverso questo suo aspettato rifiuto, ed anche se l’opposizione diciamo costituzionale non aveva mai aveva avuto illusioni sulla sua persona però vedeva ancora più o meno nella figura del re una protezione, egli rischiava di far subito figura di… contro-potere (niente di meno) !
Ne vengo alla mia domanda : poteva davvero prendere questo rischio politico, Mussolini ?
Cordialmente
PS. (polemica Giopp) Salvemeni ebbe occasione di riconoscere il suo errore -dovuto a confusione col nome di Mirko Giobbe
Buongiorno a lei, signor Nemeth.
Credo che la cosiddetta “diarchia”, cioè la presenza contemporanea al potere di Mussolini e del Re, fu uno dei grandi ed irrisolti problemi dell’Italia fascista, tanto da trasformarsi in quello che lei ha chiamato “contro-potere”. E’ difficile dire perché Mussolini si assunse questo rischio e perché Vittorio Emanuele III lo subì. Lo storico Silvio Bertoldi, nella sua biografia di Badoglio, ricorda che di fronte a questo affronto (perché di questo si trattò) vi fu il progetto di un golpe antifascista da parte dell’esercito contro Mussolini, golpe poi annullato. L’unica spiegazione per la decisione di Mussolini è la volontà da parte sua di “ricattare” la Monarchia e soprattutto il Principe Umberto. Ma è una spiegazione che appare ovvia. E’ possibile che dietro a questa scelta ci siano delle ..incomprensibile è invece perché Vittorio Emanuele III non reagì, rispondendo se non con il putsch di cui parla Bertoldi almeno con una crisi istituzionale, sorretta dalle Forze Armate che erano di stretta osservanza monarchica. Purtroppo Vittorio Emanuele era un individuo estremamente complesso e misterioso e le sue decisioni erano un mistero non solo per noi, ma anche anche per i suoi contemporanei ed i suoi stessi collaboratori.
Mi complimento con Fabrizio per quest’ennesimo racconto assai interessante che come scritto richiama il famoso discorso diarchia. E’ vero Vittorio Emanuele III fu un uomo assai complesso da comprendere. Ritengo che la sua chiusura fosse dovuta ai dolori familiari e fisici. Lo storico Francesco PERFETTI ha scritto un libro completo sulla storia delle voluminose memorie viste da alcuni e poi sembra bruciate casualmente dalla figlia Jolanda…Ma fu un uomo certamente molto intelligente e con un grande senso dello stato e della monarchia. La domanda che tange anche l’argomento specifico è perchè accettò così tante lesioni delle prerogative regie e statutarie da parte del Duce. A questa domanda, mi si perdoni la deformazione professionale, ho trovato una sola risposta: il Duce lo ricattava con elementi ai quali il Re non poteva cedere. A cominciare dal “mistero” del rifiuto di firmare lo stato d’assedio la sera del 27 Ottobre del 1922 (in cui entra anche l’assassinio di Luigi FULCI, Ministro dell’Interno del Gabinetto FACTA), per proseguire con l’omicidio di MATTEOTTI, la trasformazione della Camera dei Deputati in Camera dei Fasci e delle Corporazioni e tutto il resto. Due a mio modesto parere, gli elementi di ricatto: la presunta iscrizione del Re nel registro degli azionisti della Compagnia SINCLAIR OIL che sarebbe avvenuta però PRIMA dell’avvento del Fascismo e la comprovata bisessualità del principe ereditario. Non vi può essere altra spiegazione del perchè un Sovrano certamente intelligente e con grande senso del ruolo come Vittorio Emanuele III abbia lasciato fare così tanto e per così lungo tempo.
Grazie, Gerard.
Riguardo a Vittorio Emanuele, come dicevo nella risposta all’altro utente, il grande mistero di un uomo dalla profonda intelligenza come il Sovrano è il perché egli subì Mussolini, accettando le peggiori umiliazioni come l’ingerenza del Gran Consiglio nella successione o la nomina a Primo Maresciallo. Ogni ipotesi è legittima, ma sino a che una difficile ma non impossibile scoperta d’archivio recupererà dei documenti risolutivi, tutto rimarrà al livello di supposizioni.
Personalmente però mi sentirei di escludere l’affare Sinclair, nonostante quanto sostenuto dal figlio di Matteotti e le parole del duca di Spoleto (brav’uomo ma abituato a spararle grosse). A prescindere dai tuoi stessi elogi del senso dello Stato e della Monarchia (contraddittorio con un Re che piglia le mazzette) non ce lo vedo un uomo dall’intelligenza di Vittorio Emanuele III lasciare le proprie “impronte digitali” su un documento di quell’importanza, così incriminante da essere ricattatorio o destabilizzante. No, credo che il ricatto, se di questo si trattò, dipenda da qualcosa di più profondo e complesso di una squallida storia di tangenti.
Riguardo alla strage della Fiera, credo che la compromissione della Milizia di Milano sia palese: ci sono troppe coincidenze per non immaginarlo, ma a che titolo? fiancheggiamento, copertura o addirittura organizzazione? iniziativa propria o di qualche gerarca? e contro chi? contro il Re o contro Mussolini? un modo per costringere il regime ad adottare misure ancora più drastiche contro l’opposizione?
Credo sia palese anche la responsabilità di uno o più antifascisti o presunti tali.
Ferma restando l’innocenza di Tranquilli e dei comunisti del suo gruppo, se degli antifascisti vennero coinvolti (ed a mia modestissimo ed opinabile parere lo furono) quale fu il loro scopo finale? erano degli ingenui manovrati dalla Milizia? erano degli infiltrati del regime o di qualche potenza estera interessata a creare il caos in Italia? e soprattutto cosa ne è stato di loro nel Dopoguerra?
Il suicidio di Ceva con il suo “forse” finale mi ha sempre dato da pensare. Mi viene facile collegare piazzale Giulio cesare alla campagna di attentati dinamitardi di due anni dopo.
Temo che la risposta non la conosceremo mai.
Ottima memoria riepilogativa.