Laggiù (la ritirata di Russia)
Non abbiamo mai riavuto indietro il suo corpo.
Giacomo, alpino del Battaglione Cividale, 8° Reggimento, Divisione Alpina Julia, non è più tornato dal fronte russo. Era lo zio di mio padre ed era poco più di un ragazzo, aveva 23 anni, al paese lo aspettavano i genitori, i fratelli e le sorelle e la fidanzata che avrebbe sposato non appena fosse tornato a casa. Tutto quello che rimane di lui è una fotografia, probabilmente scattata appena prima della chiamata alle armi, di un bel ragazzo sorridente, dai baffetti sottili ed i capelli con la brillantina, secondo la moda dell’epoca. E’ scomparso durante la battaglia di Novo Georghievsky, il 20 Gennaio 1943, quando la divisione alpina Julia riuscì a sfondare l’ennesimo sbarramento dell’Armata Rossa, sulla strada verso casa. Lo videro partire all’assalto insieme agli altri, ma da allora più nulla. Probabilmente lo zio Giacomo fu ucciso da un proiettile russo, ma non lo sappiamo con certezza perché in pochi della sua unità riuscirono a ritornare e a raccontare. Da 65 anni l’alpino Giacomo Forgiarini è uno delle decine di migliaia di italiani dispersi in Russia.
Il padre lo aspettò sino al suo ultimo respiro. “Tornerà a casa” diceva sicuro, fissando il cancello in ferro battuto dell’ingresso del cascinale “Tornerà”.
In un altro articolo, dedicato al maresciallo Taverna, ho accennato alla ritirata di Russia ed ai ragazzi che combatterono durante quei terribili giorni, lottando ferocemente contro i sovietici per riuscire a guadagnare un metro di terreno, una isba dove passare la notte, un paio di stivali in feltro da strappare ai nemici uccisi. Paradossalmente la ritirata dal Don e la battaglia finale di Nikolaevka, dove gli alpini, ma anche i fanti della Vicenza e i soldati delle altre unità superstiti sbaragliarono i sovietici, rappresentano l’unica vittoria del Regio Esercito Italiano durante tutta la Seconda Guerra Mondiale, una vittoria pagata a durissimo prezzo, da entrambe le parti.
Il soldato Domenico Taverna fu uno dei pochi ad uscirne vivo, ma gli altri…che cosa accadde a coloro che non riuscirono a superare l’ultimo, fatale accerchiamento dell’Armata Rossa a Nikolaevka?
I fortunati furono quelli che morirono in combattimento. Quando iniziò la ritirata, il 17 Gennaio 1943, gli italiani affrontarono decine di battaglie contro le truppe sovietiche che cercavano di rinchiuderli in una sacca. Morirono a migliaia, dei nostri alpini, fanti, genieri, bersaglieri ed i soldati degli altri corpi che componevano l’ARMIR, nei combattimenti per disputare ogni villaggio, ogni fosso, ogni isba (le abitazioni dei contadini russi). I nostri soldati, stanchi, affamati, semicongelati, affrontarono armi in pugno un nemico ferocemente motivato e deciso a non consentire la ritirata agli italiani, i quali altrettanto decisi a non arrendersi ed a tornare a casa, a tutti i costi. Furono scontri sanguinosi in cui non ci fu pietà, da una parte e dall’altra. Ma non furono solo i sovietici ad ucciderli. Fu anche lo spaventoso inverno russo che, in quel gennaio del 1943 raggiunse i 42 ° sotto zero, a falciarli. Molti italiani, debilitati dalle fatiche, dagli stenti, dall’abbigliamento inadeguato, crollarono nella neve senza mai più rialzarsi. Altri, mutilati o con ferite spaventose provocate dalle granate sovietiche, non ebbero nemmeno la misericordia di una simile fine, perché le temperature congelarono le ferite, impedendo il dissanguamento ma non l’inimmaginabile sofferenza che li portò ad una morte atroce a causa dello shock.
Centinaia di feriti furono lasciati in qualche villaggio, assieme ad un medico ed a un cappellano militare. La maggior parte di loro fu sbrigativamente uccisa dai reparti dell’Armata Rossa e dai partigiani sovietici che stavano avanzando e chiudendo la sacca intorno all’ARMIR.
I prigionieri che non vennero uccisi dai sovietici vennero raccolti in lunghe, lunghissime file e costretti a marce di centinaia di chilometri nella neve. Furono le cosiddette “marce del davai” dalla parola russa che significa “avanti!” , l’urlo che i loro carcerieri sovietici (per la maggior parte appartenenti ai battaglioni di disciplina dell’Armata Rossa, formati interamente da criminali) lanciavano a quelle file di disperati, feriti, sofferenti, affamati, semicongelati. In tanti dei nostri ragazzi crollarono sulla neve e a volte, ma solo a volte, un misericordioso carceriere sovietico decideva di sprecare una pallottola per far terminare le sue sofferenze. La marcia riprendeva ed il corpo del prigioniero italiano veniva lentamente ricoperto dalla neve.
Ma chi ebbe la fortuna di sopravvivere alle “marce del davai” e di giungere alle stazioni ferroviarie oltre le linee sovietiche, spesso non riuscì a sopravvivere. Quando i treni arrivarono ai campi di prigionia oltre i monti Urali, in ogni vagone dove i nostri prigionieri erano stati ammassati i morti si contavano a decine.
Nemmeno nei campi di prigionia la situazione migliorò. I primi mesi la brutalità dei carcerieri e le epidemie di tifo e colera provocarono altre migliaia di vittime. In altre Nazioni come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna gli esuli antifascisti e le comunità italiane fecero di tutto per aiutare i compatrioti prigionieri in quei Paesi, cercando di alleviarne la prigionia. Nell’URSS questo non accadde. I soldati dell’ARMIR vennero abbandonati, anche da chi forse avrebbe potuto aiutarli, ma non lo fece per calcolo o per paura delle reazioni di una dittatura spietata.
Gli Eroi di Nikolaevka, che avevano combattuto e vinto la più incredibile, dura, disperata, spietata ed eroica battaglia nella storia delle Forze Armate italiane, quando ritornarono in Patria vennero discretamente “ospitati” in Alto Adige, ufficialmente per “ritemprarli e curarli” dalle fatiche subite, in realtà perché il Regime preferiva non avere in giro per la Penisola quei magnifici Soldati, prova vivente della impreparazione e dalla faciloneria con la quale il fascismo aveva mandato a morire una intera generazione. Non ci riuscì, perché i racconti dei Soldati dell’ARMIR sulle loro sofferenze, crearono nel Paese la rabbia che avrebbe portato pochi mesi dopo al crollo del fascismo ed alla guerra civile.
I superstiti dei campi di prigionia sovietici rientrarono in Italia a partire dal 1946. Non ci furono fanfare e parate ad accoglierli, al loro ritorno. La nuova Italia che aveva superato anch’essa pene terribili, voleva dimenticare in fretta la guerra e con essa anche i reduci dell’ARMIR. Gli unici ad accoglierli al loro ritorno furono i familiari ed parenti dei dispersi “Questa è la foto di mio figlio Luigi , era del 6° Alpini…” “Mio figlio Mario, era del 3° Bersaglieri…” “Mio marito Antonio, 81° Fanteria…” “Mio marito era del 156° Fanteria, non puoi non averlo conosciuto…” “Vi prego, questo è mio figlio Giacomo… era del 8° Alpini, oggi ha 25 anni…guardate la foto, vi prego…ditemi che è vivo, ditemi che lo avete visto, ditemi che tornerà…”
Alcuni reduci non riuscirono a ritornare alla vita civile negli anni successivi. Ci fu chi si diede alla criminalità, chi si rinchiuse nella follia, chi trovò rifugio nell’alcool, chi decise di salire sulla spalletta di un ponte e di gettarsi nell’oscurità. La maggior parte dei reduci però riuscì a ritornare alla Vita. I Soldati dell’ARMIR trovarono lavoro, ebbero una famiglia e contribuirono a ricostruire l’Italia, trasformandola in un posto migliore rispetto a quella che avevano lasciato quando erano partiti per la Russia e cercarono di lasciarsi alle spalle l’orrore che avevano vissuto, ma non dimenticarono mai i Fratelli Perduti che erano rimasti laggiù.
Secondo l’Esercito Italiano 100.000 soldati dell’ARMIR su 229.000 non tornarono dal fronte russo e di questi almeno 95.000 morirono durante la ritirata del gennaio 1943 ed in prigionia ma la cifra non tiene conto delle centinaia di reduci morti in Patria nei mesi e negli anni seguenti, in seguito alle ferite ed alle malattie contratte in guerra.
Il tenente Giovanni Piatti, 5° Reggimento Alpini Battaglione “Tirano” fu uno dei 100.000. Prima di partire scrisse una lettera testamento ai propri genitori;
“Ora sono disteso entro la ferace terra della grande Russia ove le nubi bianche ed il cielo azzurro fanno da volta alla mia tomba… Sappiate che non ho gettato la mia gioventù matura al di là di tutti gli ostacoli per puro spirito di esibizionismo. Né ho voluto morire per nausea della vita. Desideravo anzi di vivere… Sono partito perché i più giovani di me non vollero partire, perché i vociferatori della guerra tradivano la santa causa del popolo, sono partito anzitutto perché i miei alpini – che la storia dimostrerà essere i più puri rappresentanti della stirpe italiana – volevano essere condotti da capi responsabili, da uomini come loro, solidi, decisi, tenaci. Mai ho nutrito odio verso i popoli che combattemmo. Ancora oggi che riposo nel mondo senza patria sono convinto, come fui sempre, che nel secolo ventesimo tutti siamo europei…. Tempi sempre tristi attendono il mondo. Gli errori dei governanti cadono sui popoli. Mettete il mio cappello alpino che lascio a casa, intriso ancora del mio sudore con la penna di falco, con la nappina rossa, mettetelo in un’urna di cristallo e riponetelo nel sepolcro di famiglia ove dormono i nostri morti. Esso mi rappresenta, esso sta in luogo delle mie ceneri troppo lontane ed ormai volatilizzate dal vento della steppa ghirghisa. Esso vi attende con me fianco a fianco. Se avete altro tempo da vivere fatelo con sovrana alterigia sopra le miserie della vita. L’onestà continui ad essere la vostra norma, la libertà delle opinioni il vostro credo, l’amore nel valore del popolo,contro il quale nessuno prevarrà, la vostra fiducia…. Destinate alla pubblica carità – quella saggiamente amministrata – quel qualsiasi obolo che la vostra pietà vi consiglierà di spendere per ricordarmi. Nessuno spirito di vendetta vi animi contro chiunque. Nessuno ha vera colpa se non noi stessi che non reagimmo in tempo. Non aggiungete altro rancore, altro sangue al sangue, al troppo sangue sparso … perché non è la spada che afferma i diritti, non è la violenza che risolve i problemi della vita; è la carità, la comprensione,è l’amore. La spada non semina che morte. Io sono con voi ma non ho voce, non ho più volto, non ho più sangue, ma io sono con voi…Date ai miei veri amici un ricordo di me. Ai miei alpini un aiuto. Per me benedite le loro case, i loro figli, fatelo per me perché sono io che lo faccio per voi. Per me siate fieri e sereni, fieri di avermi dato i natali, sereni perché io stò bene, perché stò meglio di voi. Io spazio nell’eternità della materia, divenuto libero e puro. Io vi amo e vi assisto.”
Giovanni Piatti morì in battaglia a Nikolaevka il 26 Gennaio 1943. Venne decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Uno dei Centomila che non tornarono da laggiù.
Accadde 65 anni fa.
Ieri.
(per la redazione di Cadutipolizia.it Fabrizio Gregorutti. Articolo del 1 Gennaio 2008)