LO SQUADRONE AZZURRO (Il Tenente della P.A.I. Bruno de Martinez la Restia- di Fabrizio Gregorutti)
LO SQUADRONE AZZURRO (Il Tenente della P.A.I. Bruno de Martinez la Restia- di Fabrizio Gregorutti)
Nel novembre 2012 chi scrive si è recato a visitare nella bellissima Ragusa il Museo Civico “l’Italia in Africa 1885- 1960), il cui direttore è il signor Mario Nobile, uno studioso entusiasta che da circa trent’anni si dedica alla raccolta delle nostre memorie coloniali.
Le sale del museo, ognuna delle quali dedicate ad una delle nostre ex colonie (Eritrea – Somalia – Libia – Etiopia) raccolgono documenti ed oggetti collegati alla nostra storia africana, dall’acquisto nel 1869 di un fazzoletto di terra nella baia eritrea di Assab alla fine della nostra amministrazione fiduciaria in Somalia nel 1960 .
Tra questi, la splendida uniforme da campagna di un tenente della Polizia dell’Africa Italiana, accanto alla quale si trova la foto dello stesso giovane ufficiale a cavallo, scattata alla fine degli anni ’30 probabilmente durante una cerimonia ufficiale in Africa. Il tenente è in divisa bianca, sciabola sguainata, in perfetta posa sul proprio cavallo. Ha i baffetti sottili, come impone la moda del tempo e sorride all’obiettivo.
E’ il tenente Bruno de Martinez la Restia Statella, principe d’Aragona e delle Due Sicilie, ufficiale della Polizia dell’Africa Italiana.
De Martinez è l’ultimo discendente di una casata dell’alta aristocrazia siciliana, una dinastia che trae la propria antica origine da una stirpe di cavalieri della nobiltà spagnola trasferitasi in Sicilia nel XIV secolo, quando l’isola è passata sotto il trono dei Re d’Aragona.
De Martinez cresce nel proprio palazzo di Siracusa, attorniato dai ritratti e dai ricordi dei propri avi e dai racconti delle loro imprese, dalle crociate che nel Medioevo hanno liberato la Spagna dal dominio arabo, alle guerre contro gli angioini in Sicilia e nel Regno di Napoli, ai conflitti contro i turchi ed i barbareschi nel Mediterraneo, alle guerre moderne, prima del Regno delle Due Sicilie e del Regno d’Italia poi. Non c’è una guerra condotta al servizio di Aragona, della Spagna, delle Due Sicilie e dell’Italia che non abbia visto la presenza di un de Martinez.
Con una simile storia dinastica, come stupirsi che il giovane Bruno de Martinez voglia aggiungere il proprio nome a quello dei propri avi?
Arriva però prima l’Africa, dove la famiglia si è trasferita negli anni ’20, perché concessionaria di un’azienda agricola in Libia. E’ qui che de Martinez si innamora dell’Africa. Quando sceglie la carriera militare nell’Arma di Cavalleria (e dove, altrimenti?) ritorna nel Continente. Nel 1935 combatte in Etiopia e nel 1937 sceglie di entrare nel neonato Corpo della Polizia Coloniale, poi Polizia dell’Africa Italiana, una nuova struttura militare dove un giovane ufficiale come lui avrà certo la possibilità di emergere.
Viene destinato a Mogadiscio, capitale della Somalia Italiana.
Nel 1938 de Martinez affronta la prima impresa, comandando con successo la scorta di una colonna di cavalli da sella da Massaua a Mogadiscio. Detta così, sembra roba da nulla, ma nell’Etiopia del 1938, sconvolta dalla guerriglia abissina e dal banditismo, riuscire ad attraversare la nuova colonia senza subire perdite è qualcosa di quasi eroico, tanto da meritare un encomio ufficiale da parte dei vertici del governo imperiale.
Una volta a Mogadiscio de Martinez inizia ad organizzare lo squadrone dei “Lancieri della Guardia” della scorta del governatore Caroselli. Innanzitutto arruola gli agenti italiani, o meglio, come si diceva allora i “nazionali”. Sono un maresciallo e dieci guardie PAI, tra i quali nel suo memoriale scritto quasi cinquant’anni dopo de Martinez ricorda la guardia scelta Bartolomeo Silgoner e le guardie Augusto Arconte, Pio Gelsomino e Renato Kersovan. Poi è il momento di arruolare i lancieri somali e de Martinez si rivolge ai giovani esponenti delle cabile, i clan somali. Ciò che de Martinez ha in mente è la versione africana delle corti medievali europee, dove la scorta dei sovrani era formata da cavalieri appartenenti all’aristocrazia. E’ una mossa intelligente, che vuole avvicinare l’élite guerriera somala alle autorità italiane e denota la conoscenza da parte di de Martinez della psicologia indigena. Rimangono nelle memorie scritte da De Martinez i nomi di alcuni dei guerrieri arruolati, il Buluk basci (brigadiere) Issa Gibril, il muntaz (appuntato) Alì Salek e di altri 17 lancieri.
Le stesse memorie sono estremamente accurate e minuziose e dedicano pagine su pagine all’uniformologia del nuovo reparto, al suo armamento, alle disposizioni della scorta al governatore ed al vicerè d’Etiopia.
’organizzazione dello squadrone, fondato nell’ottobre del 1938 trova il suo degno coronamento il 17 giugno dell’anno successivo con il primo servizio della scorta d’onore al palazzo del governatore da parte dello squadrone.
Il giornale “Somalia Fascista” del 20 giugno 1939 descrive con entusiasmo la cerimonia del cambio della guardia e si sofferma nell’accurata descrizione delle uniformi dei lancieri studiate da de Martinez (e che sono di base per lo squadrone vicereale e quello degli altri governatori) delle quali il colore base è l’azzurro sabaudo. Non si tratta di inutili pignolerie, la stessa ricercatezza delle uniformi, dai turbanti, ai tarbusc azzurri, alle farmule (i gilet) azzurri bordati d’oro sono dirette a raggiungere cuore e mente dei nuovi popoli, abituati allo sfarzo dei costumi dei ras abissini e delle loro corti.
Per il giovane comandante è un successo ma, come è ovvio, non gli basta. E’ un soldato di professione e non è certo arrivato in Africa per fare l’ufficialetto da guarnigione, impegnato tra una parata ed un tè con la buona società coloniale. Da mesi il tenente de Martinez sta tempestando i propri superiori a Addis Abeba, chiedendo che gli venga affidata il comando di un’unità combattente. Finalmente viene accontentato, proprio pochi giorni dopo la nascita ufficiale dei “Lancieri della Guardia” e riceve l’ordine di trasferimento alla Banda a Cavallo “Auasc”, un’unità della PAI formata da cavalieri eritrei impegnata nella lotta alla guerriglia nella centrale regione dello Scioa. A Mogadiscio il suo colonnello gli dice che se vuole lui può far revocare l’ordine. De Martinez risponde soltanto “Lasciatemi andare, signor colonnello”.
Lo accontentano, per quanto a malincuore.
Pochi giorni dopo, nella prima metà di luglio, è già al comando della “Auasc”. Insieme a lui prestano servizio il suo vice, il maresciallo PAI Giovanni Contu, il maniscalco caporalmaggiore della Cavalleria Gustavo Gavin, aggregato all’unità, e 137 ascari eritrei e viene immediatamente impegnato in azione.
A tre anni dalla proclamazione dell’Impero, le truppe italiane sono ancora impegnate nella lotta alla guerriglia che tiene impegnate decine di migliaia di soldati, nazionali ed indigeni in un conflitto feroce e spietato che lambisce la periferia di Addis Abeba. Ed è proprio a una cinquantina di chilometri a sud della capitale che la Auasc viene impegnata in azione.
In quel periodo gli informatori della PAI segnalano una grossa formazione di ribelli che si aggira nei pressi della ferrovia Addis Abeba – Gibuti, la più importante e vitale arteria dell’Impero. Il comando truppe dello Scioa incarica la Auasc e la banda a piedi della PAI “Addis Abeba” di rastrellare la zona alla ricerca dei ribelli.
Per l’occasione le unità sono armate molto bene. I sottufficiali ed i graduati indigeni ricevono venti mitra MAB con una dotazione di 2000 cartucce ciascuno mentre le due bande ricevono anche 400 granate.
La Auasc e la Addis Abeba si congiungono al IV Gruppo di Cavalleria Coloniale ed il 15 Luglio iniziano il rastrellamento nella zona montana a sud della ferrovia. Trascorrono cinque giorni senza che agenti e soldati trovino traccia dei ribelli che sembrano sfuggire sempre più lontano. Il 19 la Banda a piedi viene lasciata di presidio in un importante centro sulla ferrovia, mentre i cavalieri proseguono il rastrellamento.
Il 20 luglio la Banda Auasc si ferma per far riposare i cavalli nei pressi di una località che si chiama Tulludintù.
Non è nulla di più del classico villaggio etiope, una serie di fattorie che riuniscono diversi tucul, le tipiche abitazioni indigene, circondate da muretti di fango, come delle piccole fortezze.
E’ proprio nei pressi del villaggio che il tenente de Martinez si fa scattare una foto, poi riprodotta a pagina 244 del libro di Raffaele Girlando “Storia della PAI”. Il giovane ufficiale sorride stanco all’obiettivo, mentre tiene per le briglie il proprio cavallo. Accanto a lui il buluk basci Imàn Brahanè, un duro cavaliere eritreo già valoroso combattente durante la campagna d’Etiopia e che va dannatamente orgoglioso del suo nuovissimo mitra MAB. Lui non fissa l’obiettivo, sembra guardare il suo comandante o forse qualcosa più lontano, verso Tulludintù.
Pochi minuti dopo quella foto, da dietro quei muretti a secco delle fattorie esplode un autentico uragano di fuoco che si rovescia sui cavalieri. Sono i ribelli che, dopo quella violenta scarica di fucileria, ripiegano improvvisamente verso l’interno.
Ma la “Auasc” non ha la minima intenzione di lasciarli scappare.
De Martinez è il primo a balzare in sella, seguito dai suoi ascari, mentre i sottufficiali eritrei lanciano l’urlo di guerra “AIMO’! AIMO’!”
I comandanti delle bande indigene devono essere coraggiosi e sprezzanti del pericolo, di fronte ai loro uomini, ai limiti della spavalderia e dell’incoscienza. Non hanno il diritto di abbassare la testa in battaglia, altrimenti perderebbero il rispetto da parte dei loro ascari.
De Martinez sguaina la sciabola, quindi dà di sprone al cavallo e guida l’assalto verso le posizioni dei guerriglieri abissini mentre i suoi ascari lo seguono, sguainando i guradè, le loro terribili spade, lanciando l’urlo di battaglia della cavalleria coloniale “AMORA’ RATIE’! AMORA’ RATIE’ !” “Arrivano i falchi!”.
I cavalieri caricano ventre a terra, in una galoppata di sette chilometri, spazzando via un violento contrattacco nemico, quindi raggiungono le posizioni della guerriglia e falciano gli etiopi con i loro MAB, mentre il maresciallo Contu raggiunge Tulludintù insieme ad alcuni ascari che a colpi di guradè e lanciando granate cancellano la resistenza nemica. De Martinez continua l’inseguimento dei ribelli superstiti insieme al resto della banda PAI e al IV Gruppo di cavalleria coloniale, disperdendo i guerriglieri superstiti.
Durante la carica De Martinez è stato ferito, ma rifiuta di essere trasportato in ospedale. Deve adempiere al suo dovere di comandante. Deve seppellire i suoi uomini e provvedere al soccorso dei feriti.
Nello scontro sono rimasti infatti uccisi il bulucbasci Imàn Brahanè, proprio il sottufficiale ritratto con de Martinez pochi minuti prima della carica e l’ascari ventenne Ghebresghì Andichiel, già combattente nell’XI Battaglione Eritreo. Altri due ascari di polizia e quattro cavalieri del IV Gruppo sono rimasti feriti, alcuni gravemente.
Quella di Tulludintù è la prima azione bellica della PAI ed è stata un successo che imbalzandisce gli alti comandi di Addis Abeba e di Roma.
De Martinez verrà decorato di medaglia d’argento per la sua azione e il gagliardetto della “Auasc” (le unità indigene non hanno la bandiera di guerra) riceverà un’onorificenza, ma per il giovane ufficiale la migliore decorazione rimane il rispetto dei suoi uomini.
Il tenente de Martinez rimane in Africa Orientale sino a poco prima dello scoppio della guerra poi viene rimpatriato ed assegnato prima al Comando Generale della PAI a Roma e poi alla Scuola di Tivoli. Dietro sua richiesta nel 1942 viene assegnato in Africa Settentrionale e qui, in una pausa dei combattimenti, ha la sorpresa di incontrare il suo buluk basci Issa Gibril, dei suoi lancieri di Mogadiscio. Nelle sue memorie de Martinez ricorderà ancora commosso l’incontro. Il sottufficiale somalo prima dello scoppio della guerra insieme ad altre decine di ascari è stato assegnato alla Mostra d’oltremare di Napoli. Quando sono iniziate le ostilità gli ascari, eritrei e somali, sono rimasti isolati a migliaia di chilometri da casa. E’ una storia che non è stata ancora scritta, quella di questi africani rimasti bloccati in Europa e probabilmente non lo sarà mai.
Issa Gibril è riuscito perlomeno a sbarcare sul continente africano, tentando di ritornare in Somalia. Ancora cinquant’anni dopo il tenente de Martinez si chiederà se Issa ci sia riuscito, se abbia rivisto le spiagge di Mogadiscio.
Poche settimane dopo, de Martinez viene gravemente ferito durante un attacco inglese. Non vuole essere rimpatriato, è convinto di poter continuare a prestare servizio, ma il suo comandante (“quel generale di fanteria” scrive de Martinez con rabbia a distanza di mezzo secolo) è irremovibile. Deve ritornare in Italia. Trascorre la sua convalescenza a casa, in Sicilia, e qui lo sorprende lo sbarco degli Alleati.
Le ferite subite in Africa Settentrionale lo hanno reso un grande invalido di guerra e lui stesso nelle sue memorie ammette di essere rimasto traumatizzato dalla guerra, ma per un de Martinez, appartenente ad una casata che ha difeso la Spagna dai mori, non è un buon motivo per rimanere al sicuro mentre altri soldati combattono e muoiono.
Al Sud la PAI non esiste più, venendo di fatto assorbita nelle Guardie di PS e di certo de Martinez non ha voglia di fare il questurino. Entra nell’ordine militare di Malta e presta servizio nel corpo sanitario durante tutta la Guerra di Liberazione, sino al 25 aprile 1945, quando la guerra termina e con lei l’avventura del tenente de Martinez.
Nel Dopoguerra Carmelo Bruno de Martinez la Restia Statella, principe d’Aragona e delle Due Sicilie, si dedica ai suoi studi araldici e storiografici sulla propria casata e sull’aristocrazia siciliana, vivendo la vita agiata e tranquilla di un ricco possidente nel suo bel palazzo di Siracusa, circondato dai cimeli delle sue avventure. Nelle sue memorie però si avverte la struggente nostalgia per l’Africa, la certezza di avervi lasciato il proprio cuore.
Una notte, a più di mezzo secolo dalla fine della guerra, l’ultimo dei de Martinez chiude gli occhi per sempre e ritorna in Africa dai suoi lancieri azzurri di Mogadiscio, dai suoi cavalieri eritrei della “Auasc”.
No. Questa storia non finisce bene, con il ricordo dell’Eroe onorato ed i suoi cimeli affidati alla cura di studiosi e scienziati.
Poco dopo la morte di de Martinez i ladri entrarono nel suo palazzo di Siracusa, saccheggiando la sua collezione personale che oggi probabilmente si trova dispersa tra negozi antiquari e collezioni private. Tutto ciò che ne rimane è la splendida uniforme dell’ufficiale, il gagliardetto dei Lancieri Azzurri e il suo memoriale, donati al signor Mario Nobile ed al museo civico di Ragusa, dove si possono ammirare ancora oggi.
In altri Paesi ad un uomo come de Martinez sarebbero state intitolate caserme e sarebbe stato ricordato come uno dei protagonisti della storia della Polizia e la stessa carica di Tulludintù sarebbe stata posta alla pari della mitica carica a cavallo dei carabinieri a Pastrengo.
Purtroppo questo non accadde per de Martinez, la cui memoria è stata riscoperta solo negli ultimi anni per merito dell’Ufficio Storico della Polizia e di pochi studiosi.
La stessa carica di Tulludintù, ricordata solo da un paio di libri e da un paio di articoli scritti da de Martinez è stata cancellata dalla memoria storica dell’Amministrazione di PS.
Forse perché, a differenza di Pastrengo, gli eroi di Tulludintù erano solo un branco di “negri”?
(per la redazione di Cadutipolizia, Fabrizio Gregorutti)