Quella sottile linea rossa
QUELLA SOTTILE LINEA ROSSA
di Gianmarco Calore e Fabrizio Gregorutti
Sono passati tanti anni e sembra sia stato ieri.
Nella memoria di chi ha vissuto quegli eventi ritorna prepotente la sensazione di sbando in cui l’Italia si dibatteva, fresca di una Costituzione che restava un dettato normativo sulla carta. Nelle piazze e nelle strade la gente contrapponeva odii mai sopiti e vendette ancora fresche di coltello. Si sparava, oh quanto si sparava…. Ex partigiani neo ammantati delle glorie della recente Liberazione, supportati da un Partito Comunista che incontrava sempre maggiori consensi, si contrapponevano a ex fascisti e repubblichini allo sbando che invece cercavano di mantenere un profilo basso, quasi a voler dimenticare che fino a tre anni prima avevano avuto l’Italia in mano.
C’era ancora gente che andava a prendere altra gente nell’intimo delle proprie abitazioni, strappandola dagli affetti familiari e facendola sparire nei boschi, dentro qualche buca scavata frettolosamente. Agguati notturni tesi a Tizio che rientrava dall’osteria e si trovava con un indesiderato surplous di piombo nello stomaco. Bombe a mano lanciate nelle sedi dei partiti, stanzoni messi a disposizione da questo o da quello; irruzioni a suon di spranghe e schioppettate sulla base del solo sospetto che proprio lì, in quel luogo, un manipolo di dissidenti cercasse di rinfocolare le lotte politiche del dopoguerra.
Questa era l’Italia del 1948.
Un periodo in cui la politica veniva condotta visceralmente e impetuosamente. Un periodo in cui – morto un leader – se ne cercava un altro. La dialettica nelle piazze era cambiata di poco, se non di nulla: alle camicie nere e agli “eja eja alalà” erano subentrate bandiere rosse e pugni alzati. C’era un uomo che incarnava tutto ciò e che plasmava le folle che erano tornate a riempire le piazze: si chiamava Palmiro Togliatti. Nato a Genova nel 1893 da famiglia piccolo-borghese, ottenne una laurea in giurisprudenza e si iscrisse ben presto al Partito Socialista per uscirne subito dopo per una diversa ottica relativa alla Prima Guerra Mondiale. Le sue idee politiche si spostarono progressivamente sempre più a sinistra, fino a fargli fondare assieme a Tasca, Terracini, Ravera e Bordiga il Partito Comunista d’Italia di cui divenne subito segretario. Le sue idee non hanno mezzi termini: ideologicamente aderente alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, intendeva importare anche in Italia lo stesso clichè sovietico. Idee forti, spesso eversive, talvolta anche scomode e a volte poco limpide: non fu mai realmente chiarita la sua posizione politica sui Quaranta Giorni di Trieste e Gorizia, quando il IX° Korpus jugoslavo invase le due città firmando una delle pagine più assurde e dolorose del nostro recente passato: quella delle foibe. Si disse – e si scrisse – che i partigiani jugoslavi fecero il loro ingresso nella Venezia Giulia già con in mano le liste delle persone da epurare, liste fornite direttamente da esponenti del PCI ; si disse anche – e si scrisse – che lo stesso Togliatti aveva segretamente promesso l’annessione alla Jugoslavia dell’intero Friuli Venezia Giulia fino al fiume Tagliamento, che ne sarebbe dovuto diventare il nuovo confine. In ogni caso, l’atteggiamento di Palmiro Togliatti nelle discussioni e nelle lotte su Trieste e sul confine orientale, fu tale da suscitare più di qualche dubbio. Nella lotta politica degli anni successivi è però Togliatti ad impedire il deragliamento del PCI su posizioni eversive, come quando nel 1943 riconosce il governo monarchico italiano, in attesa del referendum, o come quando nel novembre 1947 impedisce una crisi di proporzioni imprevedibili stroncando con poche gelide parole gli ex partigiani comunisti che hanno occupato la Prefettura di Milano (“Compagno Togliatti! Abbiamo conquistato la Prefettura!” “Bravi…e ora che ve ne fate?”) .
Stridori politici forti, fatti di frizioni violente tra masse di popolazione che faceva dell’ideologia il proprio pane quotidiano.
Fino al 14 luglio 1948.
Alle 11:30 di quel giorno, mentre sta uscendo da Montecitorio assieme alla compagna di vita Nilde Jotti, Togliatti viene colpito da due colpi di pistola esplosi da un giovane aderente al blocco liberale qualunquista, Antonio Pallante, spaventato dall’impeto dell’ideologia sovietica professata dal politico. Spara con una calibro .38, proiettili potenti come magli. Ma Pallante non è un esperto di armi. Ha acquistato cartucce inadatte allo scopo, usate più per inabilitare che per uccidere . Un proiettile colpisce Togliatti alla nuca, un altro alla schiena. Un terzo va a vuoto. Come nel vuoto precipita l’intero Paese. Le notizie che giungono dall’ospedale sono scarne e contraddittorie: c’è chi lo dà già per morto. Non è vero, anzi Togliatti prima di entrare in sala operatoria riesce a dire ai proprio collaboratori “Mi raccomando, non fate sciocchezze!”.
Ma in Italia succede il disastro. L’ala dura della partigianeria riprende in mano i mitra e dà l’assalto ai punti nevralgici delle città, tra cui i telegrafi e le poche stazioni radio. Nelle piazze si torna a sparare in un’isteria collettiva sempre più diffusa, alimentata da un caldo soffocante e da un’afa opprimente. Vengono bloccate le stazioni ferroviarie e la prima autostrada appena aperta. Il Paese è diviso in due e isolato dal mondo circostante. In molti accarezzano l’idea di una guerra civile che getti l’Italia tra le braccia del “baffone” sovietico….
In mezzo a tutto ciò ci siamo naturalmente noi: la Polizia. Gli ordini impartiti da Mario Scelba sono perentori: vengono vietate tutte le manifestazioni di piazza, di qualsiasi tipo e con qualsiasi mezzo. Vengono schierati e Reparti Mobili e i primi due Reparti Celeri della Polizia: il “Primo” di Milano e il “Secondo” di Padova. L’esercito viene consegnato nelle caserme, pronto ad intervenire.
E qui la storia prende due strade diverse: una bella, l’altra no.
In tutta Italia scaturiscono ovunque violentissimi scontri a fuoco con 14 morti e 204 feriti, molti dei quali tra gli stessi poliziotti. Proprio a Genova, il 15 luglio, i manifestanti hanno la meglio sulla Polizia che viene addirittura disarmata. Il 14 luglio, nel corso dei primi violentissimi scontri di piazza, a Livorno viene uccisa a pugnalate la guardia di P.S. Giorgio Lanzi, paradossalmente un ex partigiano. In quel momento con un gavettino in mano sta attraversando la strada sbagliata al momento sbagliato; lo stesso giorno a La Spezia la guardia Alessandro Saletti, dislocata a guardia di una sede di partito, viene assalita dai rivoltosi che cercarono di sottrarle l’arma d’ordinanza: pur di non cedere, Saletti riceve violentissime percosse che ne causarono il decesso dopo poco. Il 16 luglio ad Abbadia San Salvatore (SI) sono trucidati il maresciallo Virgilio Raniero e la guardia Giovambattista Carloni, della Questura di Siena: insieme ad altri undici guardie, i due poliziotti si recano a portare rifornimenti ad una ventina tra agenti e carabinieri circondati dai rivoltosi all’interno della centrale telefonica del Monte Amiata, ma, prima di arrivare sul posto, il camion sul quale gli agenti viaggiano viene bloccato da grossi tronchi posti di traverso sulla strada. Il maresciallo Raniero ed altri agenti scendono per rimuoverli ma vengono circondati da un numeroso gruppo di manifestanti armati. A bordo del camion alcuni agenti tentano una reazione, ma i manifestanti rispondono facendo fuoco contro i poliziotti e la guardia Carloni viene gravemente ferita da un colpo di pistola che gli trapassa la gola mentre l’autista del camion è ferito al volto dalle schegge di una granata lanciata contro la cabina di guida. Costretti ad arrendersi, viste le gravi condizioni dei feriti, gli agenti sono rilasciati e lasciati entrare ad Abbadia San Salvatore. Qui il maresciallo Raniero lascia i feriti all’ospedale e decide di telefonare per chiamare i soccorsi. Uscito in strada, viene attirato in un agguato e picchiato a sangue, torturato e poi ucciso a colpi di trincetto da calzolaio. Il suo corpo viene ritrovato il giorno successivo in un bosco. La guardia Carloni muore durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale di Siena. Gli assassini del maresciallo Raniero e della guardia Carloni sono arrestati e condannati.
Blocchi ferroviari e telefonici dividono il Paese; a Milano, in piazza Duomo, la situazione è diventata incontrollabile. Ma ecco avvenire un fatto che, con il senno del poi, fa sicuramente sorridere: la radio – ormai unico strumento di collegamento del Paese – annuncia la vittoria di Gino Bartali al Tour de France! Ecco come un ufficiale di P.S. in pensione mi ha descritto la scena:
“All’epoca ero un giovane sottotenente di P.S. in forza al raggruppamento celere “Milano”. Dopo l’annuncio dell’attentato a Togliatti, il comandante del raggruppamento ricevette l’ordine di farci schierare nelle strade del centro, con particolare riguardo alla zona del Duomo. Era un pomeriggio afoso e l’atmosfera che si respirava aveva del surreale: la gente sembrava impazzita, chi piangeva, chi minacciava di scatenare una guerra […] Tutti gli uomini del mio contingente erano armati di pistola, mitra e sfollagente: gli ordini erano di contenere ogni intemperanza della gente, ma come? Eravamo quattro gatti dispersi in un mare di folla inferocita. Ad un tratto, si è diffusa la voce della vittoria di Bartali in Francia: non so come, la gente che ci circondava iniziò a ridere e ad abbracciarsi, coinvolgendo anche le guardie del contingente ai miei comandi. Ci trovammo in balìa festosa di persone che, fino a un momento prima, ci avrebbero volentieri sparato“. […]
Ecco cos’era l’Italia di quegli anni, ecco chi erano i poliziotti chiamati a difenderla: gente semplice dal cuore d’oro, alla quale bastava un niente per superare quel baratro che separava un cittadino da un uomo in uniforme.
Sono passati sessant’anni e sembra sia stato ieri.
La memoria delle guardie cadute in quei tre giorni di follia collettiva non deve essere relegata nel dimenticatoio. E’ un Paese strano, il nostro: pronto a osannare coloro i quali fino a ieri hanno cercato di abbatterne le istituzioni e altrettanto pronto a dimenticare i suoi servitori che invece hanno dato la vita per difenderlo. A nessuno di noi i nomi delle guardie Virgilio Raniero, Giovambattista Carloni, Giorgio Lanzi e Alessandro Saletti dicono più qualcosa. Anzi, forse in pochi sappiamo cosa accadde in quell’afosissimo luglio del 1948 nel nostro Paese.
Ricordiamocene, invece. Perchè non dobbiamo permettere a nessuno di toccare il bene più prezioso che ogni Stato democratico deve mantenere: la propria memoria storica.
Per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore e Fabrizio Gregorutti