Il regolamento della disperazione
IL REGOLAMENTO DELLA DISPERAZIONE
di Gianmarco Calore
Mi è costato molto scrivere su una vicenda come questa.
Una simile premessa è necessaria prima di affrontare un tema che oggi può sembrare anacronistico, ma che fino a non molto tempo fa era di sconcertante attualità per l’intero Corpo della Polizia italiana. Per una volta tanto qui non parlerò di Poliziotti caduti, anche se la morte è comunque presente e ha toccato fin troppo da vicino un nostro Collega: qui parlerò invece di un aspetto della nostra storia che ci riguarda come Corpo, come esseri umani, come singoli individui.
Ho deciso di non tacere nemmeno i nomi dei protagonisti: se si racconta una storia, lo si fa fino in fondo assumendosene tutte le responsabilità.
E’ una storia tristissima, la cui lettura sconsiglio a chi si ritenga troppo sensibile per sostenerne il peso.
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Questa è la storia di Cesare Vito, un giovane venticinquenne arruolatosi nel Corpo delle Guardie di P.S. con la qualifica di guardia aggiunta. L’anno è il 1959, il teatro di questa storia è Torino, una grande città tuttavia troppo piccola per contenere lo scalpore – ma soprattutto il dolore – che gli avvenimenti che andremo a raccontare provocheranno.
La guardia aggiunta Vito è uno dei tanti “precari della Polizia”: erano tempi in cui un militare di p.s. trascinava la sua grama esistenza professionale di rafferma in rafferma nella spasmodica speranza di guadagnare la qualifica di guardia effettiva: un po’ quello che accade oggi a molti giovani assunti a tempo determinato e che mirano a stabilizzare la propria posizione lavorativa per comprarsi casa e mettere su famiglia. E la famiglia c’entra anche in questa storiaccia dell’ottobre 1959. Vito, originario della provincia di Latina, è stato assegnato al 1° Battaglione Mobile Guardie di P.S. del capoluogo piemontese che all’epoca occupava la caserma di corso Valdocco: vi lavora da quasi 5 anni, in attesa di essere inviato a Roma per frequentare quel tanto agognato corso per guardie effettive che altrettanti come lui stanno bramando. E’ un’attesa lunga, fatta di speranze ogni volta disilluse specie quando ci si vede passare davanti altre guardie magari più giovani… Non so se il militare si sia messo a rapporto con i suoi superiori, cercando una via di uscita a quel tormento che lo logorava: la precarietà. Non so nemmeno se l’uomo fosse stato o no meritevole di partire per quel corso. Mi piace credere di sì. I servizi cui il giovane era adibito erano servizi cosiddetti “di caserma”: vigilanze al corpo di guardia, servizi di corvetta in cucina, le pulizie dei locali e degli alloggi. Insomma, poco più che uno sguattero, il cui lavoro era ben lontano dalla vita operativa che ci si sarebbe aspettati da un tutore dell’ordine. Ma la Polizia dell’epoca era fatta così: a fronte dei servizi d’istituto i militari dovevano attendere anche a tutto il resto, e da soli: addirittura le pulizie degli alloggi, il vettovagliamento, i servizi più umilianti erano disimpegnati da loro con orari che molto spesso si prolungavano senza sosta anche per tutta la giornata, prolungando altrettanto spesso il normale orario lavorativo.
Questa è la storia di Laura Bottizzo. E’ una giovane ventitreenne che aveva trovato alloggio in un appartamento fatiscente di via La Salle n° 16, a Porta Palazzo: viene descritta come una giovane dai lineamenti fini, graziosa, a modo. A sedici anni appena compiuti aveva lasciato la casa dei genitori in provincia di Cuneo per venire a Torino in cerca di lavoro, per contribuire in tempi così di magra al sostentamento della propria famiglia di origine: la mamma era morta nel 1947 e il padre campava con una misera pensione di guerra per un figlio immolato sull’altare della Patria durante il conflitto conclusosi da poco; un altro fratello era già operaio in fabbrica e mandava a casa tutta la paga come si usava al tempo mentre una sorella era sposata in terra lontana. La giovane era stata comunque fortunata: aveva trovato impiego come cameriera in un locale di corso Emilia. E qui nel 1955 Laura conosce un giovane: è la guardia aggiunta Cesare Vito. Tra i due scocca la scintilla dell’amore: e all’amore non si comanda, nemmeno con un regolamento militare. Già, perchè non c’era solo la precaria posizione dell’uomo a dover fare riflettere: c’era anche un regolamento di servizio estremamente rigido che impediva il matrimonio prima del compimento del ventottesimo anno di età o dell’ottavo anno di servizio e comunque prima del conseguimento della qualifica di effettivo. Inoltre la convivenza “more uxorio” non solo non era contemplata ma anzi era apertamente vietata a pena della destituzione dal Corpo. Tuttavia, lo ripeto, all’amore non si comanda. E guai se così non fosse! Dal loro amore nasce subito il primo frutto, un paffuto fagotto cui viene dato il nome di Carlo. La gravidanza aveva tuttavia fatto perdere il lavoro alla ragazza: all’epoca non c’erano diritti per le lavoratrici-madri e una donna incinta, per di più non sposata, suscitava pubblico scandalo. La coppia però non demorde: Cesare, con il suo stipendio di trentaduemila lire al mese cui doveva sottrarre la quota di diecimila per la mensa di servizio, si sobbarca il mantenimento della sua donna e del figlioletto. La dimora è sempre quel sudicio appartamento che definire tale è puro eufemismo: una stanza con angolo cottura e un altro vano adibito a cameretta per il bimbo, una porta-finestra che dà su un cortile interno adibito a discarica… Il bagno? In comune con gli altri appartamenti, fuori, in corridoio, senza acqua calda che la giovane scalda in casa su un pentolone, col gas.
La storia d’amore della coppia viene coronata subito dopo dall’arrivo di un secondo bebè: stavolta è una femminuccia tutta riccioli, la chiamarono Alba. Una seconda gioia che sembra rinsaldare ancora di più l’amore dei due giovani. Ma quel maledetto corso da effettivo ancora non arriva; e ci sono ancora quasi quattro anni da trascorrere prima dei fatidici 28 anni anagrafici e 8 di servizio…. I soldi cominciano a non bastare: la solidarietà delle altre famiglie si fa subito sentire, ognuno contribuisce come può con quel poco che ha. Cesare fa mille salti mortali per tenere nascosta la sua relazione e la sua paternità al Comando: permane in caserma, soggiace ai servizi più stancanti senza fiatare e il pochissimo tempo libero che ha lo corre a passare con la sua famiglia. I vicini lo vedono spesso portare i due neonati al parco in riva alla Dora intriso di un affetto senza paragoni; le poche parole che scambiano col giovane sono sempre le stesse: il rammarico da parte sua di non poter realizzare il suo sogno d’amore, di non poter vivere alla luce del sole con la sua famiglia senza scandalo e senza rischi; gli incoraggiamenti da parte dei vicini a tenere duro, a non mollare, chè tanto i tempi cambieranno….
E i tempi cambiano presto: Laura si scopre incinta per la terza volta. E questa nuova gravidanza stavolta non porta gioia alla coppia, ma preoccupazione: i soldi non bastano più, quella sudicia stamberga nemmeno. Sì, lo so: molti di voi staranno pensando la stessa cosa: potevano starci attenti, no? Ma io sono un inguaribile romantico, amo le famiglie numerose e mi ostino a voler credere che non si sia trattato di un semplice “incidente di percorso”. Le difficoltà sembrano insormontabili tuttavia la coppia cerca di reagire, di trovare una soluzione anche se Laura sembra ogni giorno sempre più cupa.
Martedì 13 ottobre 1959 Cesare Vito viene visto per l’ultima volta assieme alla sua famiglia: aveva chiacchierato con Laura, forse avevano cercato insieme l’ennesima impossibile soluzione a quel rompicapo; poi l’uomo aveva giocato un po’ con i bimbi prima di fare rientro in caserma dove la mattina dopo lo attendeva un nuovo snervante servizio, il cosiddetto “turno di giornata” che si sarebbe concluso alle otto del mattino successivo. Quando smonta dal servizio, giovedì 15 ottobre, l’uomo si reca nuovamente in via La Salle: prima ancora di aprire la porta dell’appartamento è l’acre odore di gas a preannunciargli la tragedia compiuta. L’uomo spalanca la porta e vede la canna del gas staccata dal fornello, laggiù nell’angolo…. Con un fazzoletto premuto sulla bocca corre in cameretta e trova Laura stesa a letto, in camicia da notte. Morta. Accanto a lei i due bimbi vestiti con i loro pigiamini: Carlo steso su un fianco con una manina poggiata sulla spalla della mamma, dall’altro lato Alba con ancora un timido sorriso dipinto sulla bocca. Anche loro avvolti dal freddo della morte.
Il seguito è solo cronaca: le urla di disperazione, l’arrivo ormai inutile di ambulanze, vigili del fuoco, dei colleghi del vicino commissariato: il dottor Battistini coadiuvato dai marescialli Speranza e Platania e dal brigadiere Nicolò che per prima cosa disarma Vito della sua pistola d’ordinanza nel timore che possa fare una sciocchezza. Sul tavolo del cucinino viene trovata una busta, subito sequestrata: all’interno, una lettera con poche righe farneticanti in cui Laura accusava il suo amato di avere rinnegato i figli, di non avere fatto abbastanza per la sua famiglia nonostante le copiose testimonianze in senso contrario raccolte tra i vicini di casa. Laura arriva a insinuare il tarlo dell’infedeltà a causa di una cartolina (mai rinvenuta) e spedita da una fantomatica amica di Cesare che lui avrebbe conosciuto l’estate precedente al paesello durante una licenza. Questa donna, una turista americana, avrebbe anche spedito con una lettera la somma di venti dollari che Laura, anziché interpretare come un desiderio di aiuto disinteressato per la famiglia, aveva frainteso gelosamente.
E proprio nella gelosia, esasperata dal poco roseo futuro e dallo stato particolare della gravidanza, va ricercato il movente di questa assurda tragedia. Della quale restavano solo due pigiamini di lana ancora appesi ad asciugare sui fili dello stendino ricavato sul ballatoio di ingresso dell’appartamento.
Cesare Vito viene accompagnato in commissariato per le deposizioni di rito. Qui viene successivamente prelevato da un maggiore del suo reparto il quale, dopo averlo ricondotto in caserma, lo pone in stato di consegna punitiva. L’infrazione contestata? “Gravi violazioni al regolamento per quanto riguarda la condotta privata di una guardia di p.s.”…..
Ora siamo arrivati alla fine di questa storia: personalmente ho la bocca amara e un senso di incredulità che fatico a domare. E mi ritornano in mente le parole di un vecchio appuntato che mi disse: “Con il nostro lavoro non vestivi una divisa, ma un saio”.
E i voti di castità te li imponeva un assurdo, anacronistico e – perchè no – maledetto regolamento: il regolamento della disperazione. Un regolamento tanto assurdo e anacronistico da consentire al Poliziotto di andare a puttane, descrivendo addirittura i consigli igienici da adottare per non portare in caserma malattie, ma da vietare o almeno limitare fortemente il più sacrosanto dei diritti: quello di avere una famiglia normale. I numeri li abbiamo, non temete….. Sono numeri da far rabbrividire: casi di omicidio, di suicidio, di omicidio/suicidio avvenuti dalla fine degli anni Quaranta ad almeno l’inizio degli anni Settanta. E sono solo quelli documentati dalla carta stampata. Quanti altri ce ne sono? Trent’anni di strage silenziosa in cui i singoli episodi erano tutti uniti dallo stesso comune denominatore: il matrimonio impossibile, la famiglia impossibile, l’amore impossibile e il conseguente tarlo della gelosia che una volta partito, non c’è verso di fermarlo.
Il senso di questo articolo? Rendere omaggio a quanti – civili e militari – hanno passato quel confine tra una vita normale e un vicolo senza uscita per colpa di quel maledetto regolamento.
Fonti consultate:
– La Stampa anno 93 n° 246 pag. 2 del 16 ottobre 1959;
– Regolamento del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, pag. 32, edizioni Ministero dell’Interno per gli Istituti d’Istruzione, anno 1951
Buongiorno e grazie per questo bellissimo, profondo, racconto di vita. Seppur molto doloroso e sofferto..
Grazie per il suo intervento. E’ uno spaccato del nostro passato che non deve essere dimenticato: nel corso delle nostre ricerche ci siamo imbattuti in tantissime vittime di questo “mal d’amore” che portava a gesti insani e terribili. Oggi sembra incomprensibile, eppure fino a quarant’anni fa si moriva anche così….