Riabilitazione postuma
RIABILITAZIONE…..POSTUMA
di Gianmarco Calore
La guerra fa fare all’uomo cose orribili, tanto che esse siano compiute nel nome del dovere quanto che lo siano in base al proprio personale sadismo. Come ebbe a dire un grande storico della Seconda Guerra Mondiale, Renzo De Felice, “la guerra esalta sempre l’aspetto peggiore dell’uomo, mai quello migliore”.
Nulla di più vero.
La sequenza impressionante di Caduti della Polizia italiana del periodo 1940 – 1945, con centinaia e centinaia di giovani che morirono nel nome di un ideale, mi ha costretto a effettuare una distinzione di base; distinzione tanto più difficile a farsi quanto più sottile si faceva per ogni Caduto il significato di quell’ideale. Ho capito che vi furono Poliziotti-fascisti e Fascisti-poliziotti: non è un gioco di parole, ma il più severo degli spartiacque che questa Redazione ha adottato per censire o escludere ciascuno di essi. Il Poliziotto-fascista fu quel militare che svolse il suo onesto lavoro aderendo in alcuni casi controvoglia a un regime di cui era costretto a turarsi il naso per garantire la sopravvivenza della propria famiglia: ne troviamo molti e, dopo la RSI, ancora di più…militari che di giorno lavoravano per quei quattro soldi che significavano non morire di fame o non essere sbattuti sul fronte Russo, e che magari di notte diventavano staffette partigiane per il loro indomito credo in un’Italia diversa, in un’Italia migliore. Viceversa, il Fascista-poliziotto fu quell’individuo che, in preda alla febbricitante esaltazione mussoliniana e alla sua retorica, nascose dietro una divisa la legittimazione ai più biechi impulsi sadici. E poco importa che quella divisa fosse della Polizia piuttosto che di altre Forze Armate o di regime: il manganello e l’olio di ricino non avevano bisogno di ulteriori autorizzazioni.
Ecco, detta così la faccenda assume connotati di elevato rischio per questa Redazione: siamo consapevoli che, nonostante le indagini più approfondite e scrupolose fatte su ciascuno di quegli uomini, magari ne abbiamo censiti alcuni scambiandoli per bravi poliziotti, per bravi italiani quando invece furono tutt’altro. Del resto, è un rischio che abbiamo accettato.
Uno dei nomi che fin dall’inizio della mia collaborazione con Cadutipolizia avevo relegato in buona compagnia nella mia “black list” di non inseribili era quello del questore di Brescia Manlio Candrilli, fucilato presso il poligono militare di Mompiano (BS) il 1° settembre 1945 dopo essere stato condannato a morte dalla Corte Straordinaria di Assise con sentenza del 13 giugno precedente. Una figura istituzionale così alta, del resto, aveva fatto versare fiumi di inchiostro a storici e cronisti, pressochè tutti concordi nel considerarlo uno dei tanti esaltati collocati nei posti-chiave del potere fascista repubblichino, un criminale che amava andare a braccetto con l’alleato nazista firmando il nulla osta alle sue porcate e anzi, partecipando in prima persona ai rastrellamenti degli ebrei bresciani da deportare nei campi di sterminio. Un Fascista-poliziotto, insomma.
Non ci credete? Non pretendo che vi affanniate su libri e giornali dell’epoca: basta solo che digitiate su un qualsiasi motore di ricerca il nome “Manlio Candrilli” e vedrete che bel quadretto ne salta fuori.
Quindi, nei suoi confronti anche io caddi nell’insidia delle false certezze e archiviai la sua “pratica” tra le tante dei poliziotti non inseribili. Finchè un bel giorno fui contattato da un collega della Scuola Pol.G.A.I. di Brescia, anche lui amante delle ricerche storiche sulla Polizia italiana. Un collega che era a sua volta incappato in una valanga di materiale d’epoca dimenticato in alcuni fascicoli gettati al macero, ma fortunatamente recuperati. Oltre alle storie tragiche di numerosi agenti caduti in varie epoche, chi ti salta fuori? Proprio lui: Manlio Candrilli. Ma prima di spiegarvi cosa è emerso sul suo conto, come in ogni ambiente che si rispetti è meglio che parta con le presentazioni.
Manlio Candrilli nasce a Villarosa (EN) il 25 marzo 1893 da famiglia benestante che lo educa al rispetto dei princìpi dell’onestà e dell’amor di Patria. Tanto pregnante fu tale educazione da fargli intraprendere fin da giovanissimo la carriera militare: lo troviamo sul fronte della Grande Guerra, quindi nella campagna di riconquista della Libia e dei sultanati Somali durante la quale rimediò una grave ferita che, oltre all’invalidità, gli frutto anche la Medaglia di Bronzo e la Croce di Guerra al V.M.: del resto, tanto fervente era in lui il concetto di Patria che l’adesione al Fascismo fin dalla prima ora ne fu la logica e per certi aspetti comprensibile conseguenza. Rientrato in Italia senza uniforme, con una laurea in Legge in tasca proseguì le attività imprenditoriali di famiglia nel ramo dello sfruttamento dei filoni di zolfo ma non trascurò di coltivare la sua iscrizione al Partito Nazionale Fascista che gli procurò dapprima la nomina a Podestà di Villarosa, successivamente l’apertura alla carriera politica di regime. All’indomani dell’arresto del Duce, avvenuto il 25 luglio 1943, e dell’instaurazione del governo Badoglio fu richiamato come ufficiale nell’Esercito, precisamente nei Bersaglieri (50° Reggimento di Siena) con il grado di Maggiore. Alla notizia della fuga di Mussolini dal suo esilio dorato di Campo Imperatore e della costituzione della RSI, vi aderì immediatamente presentandosi al suo Duce e venendo da lui nominato questore di Brescia, carica che rivestì a partire dal 16 novembre 1943: un onore che gli costerà caro.
In neanche un anno e mezzo di servizio, cosa può avere compiuto di così tanto eclatante da meritarsi una scarica di piombo sulla schiena? Piombo, tra l’altro, munito di placet giudiziario? Dalle cronache dell’epoca emerge la figura di un alto funzionario intransigente e severo, ma del resto chi non lo era specie se investito di funzioni di comando così elevate in un tale momento storico? Di poliziotti simili ne abbiamo trovati a centinaia: ma da qui a farne criminali di guerra ne passa! Indubbiamente il suo ruolo istituzionale lo portò in stretto contatto con i collaterali organi nazisti che ancora operavano nel nord Italia e che avevano fatto della RSI una sorta di cul-de-sac a tutela della loro sopravvivenza all’avanzata degli Alleati. Questo contatto può senz’altro definirsi con il termine di collaborazione e quando finalmente la Liberazione arrivò anche nel Bresciano, le prime teste a cadere furono proprio quelle dei vertici politici e militari rimasti ancora in piedi. E non deve fare troppo scalpore una sentenza di fucilazione emessa da un Tribunale frettolosamente costituito sotto l’egida anglo-americana: il sistema del “preso-giudicato-fucilato” in quei giorni funzionava benissimo, oliato e lubrificato fin nei suoi più piccoli ingranaggi dal sangue agli occhi e dalla bava alla bocca dei neo-liberati.
Candrilli viene infatti catturato subito. Ma dove? A bordo di un treno diretto in Svizzera, nascosto tra le valige? Nel bagagliaio di una vettura che cercava di allontanarsi dalla zona a fari spenti in una notte buia e tempestosa?
No.
Viene arrestato nientemeno che a casa sua, appena fuori Brescia, mentre era intento a sistemare il giardino e l’orto come un qualsiasi odierno pensionato. Me lo vedo tutto sudato, in maniche di camicia e con un cappello di paglia in testa mentre strabuzza gli occhi nel vedere un manipolo di armati che invade la sua proprietà abbaiando ordini di arresto e intimazioni a seguirlo. Le cronache ci tramandano un uomo che seguì la sua sorte senza profferire parola e che nei pochi giorni di prigionia nelle carceri speciali per prigionieri politici allestite alle spalle del tribunale di Brescia cercava di mantenere sollevato il morale degli altri prigionieri la cui sorte era ormai segnata, anche quando essi rientravano nelle celle con addosso i “segni” di un interrogatorio in cui prima delle domande partivano le bastonate.
Quello che in molti non sanno è che nella decisione del suo destino vi fu come filo conduttore un uomo, un altro militare: il maggiore Falck del servizio di controspionaggio inglese. Lo troviamo presente agli interrogatori di Candrilli, al suo frettoloso processo e addirittura alla sua esecuzione avvenuta in un’alba piena di foschia al poligono di Mompiano. Una sorta di eminenza grigia che non parlò mai e che ufficialmente non lasciò traccia in verbali e atti giudiziari. Ma che neppure presenziò ad analoga attività svolta nei confronti di altri funzionari di regime parimenti coinvolti assieme a Candrilli. Lo storico Luciano Garibaldi nel suo pregevole testo La pista inglese (ed. ARES Milano – 2002) ne traccia l’attività in modo così sconvolgentemente naturale da sembrare logico. Perfino vero, forse. A chi pestò i piedi, Candrilli, per giustificare l’interessamento di un organismo così particolare come lo Special Operations Executive? Gli si voleva forse impedire di raccontare la sua verità su cose che era molto meglio fargli portare sottoterra? E cosa c’entra Candrilli con la scomparsa dei diari del Duce? Sta di fatto che contro di lui viene montato un processo che oggi ci è consegnato come indiziario: le accuse di collaborazionismo militare con i nazisti trovarono credito solo in pochi e faziosi testimoni, spesso addirittura in contraddizione tra loro. Lo stesso accadde con le accuse di arresti illegali di ebrei bresciani da far deportare in Germania, omicidio e sevizie: tali accuse, rimaste sulla carta stampata, non entrarono nemmeno nel processo. Forse perchè ritenute ormai acclarate anche senza una prova oggettiva a loro suffragio.
Dopo due giorni di processo, la Corte Straordinaria di Assise di Brescia lo condanna a morte mediante fucilazione ritenendolo pienamente colpevole di tutti i capi di imputazione a lui ascritti. Ma non si limita a farlo a pezzi a fucilate. Ne disintegra anche la carriera alcuni anni dopo mediante un decreto che ne fece perdere il grado militare e la conseguente degradazione dalle mansioni dirigenziali che si rifletterono anche economicamente sui suoi familiari.
Ciò di cui la storia non parla (o che sembra voler fare passare sotto silenzio) è una sentenza di annullamento post-mortem della condanna a morte e di relativa riabilitazione a firma della Corte di Cassazione, emessa il 27 novembre 1959, che recita:
“E’ stata annullata la sentenza emessa in data 13 giugno 1945 dalla Corte Straordinaria d’Assise di Brescia sul punto dell’affermata responsabilità dell’ufficiale per i fatti di omicidio e sevizie efferate, per non averli commessi. Il Supremo Collegio ha dichiarato di riflesso estinto, ai sensi dell’art. 3 del D.P. 22.06.1946 n° 4, per effetto di amnistia, il delitto di collaborazionismo militare, per cui ebbe a seguire la condanna. E’ stato annullato il D.P. 22.03.1956 con il quale l’ufficiale incorse nella perdita del grado per condanna a decorrere dal 06.07.1945 nonché nella degradazione ai sensi dell’art. 28 C.P.M.P. (D.P. 15 marzo 1961 in C.P. Registrato alla Corte dei Conti il 06.06.1961, reg. 60, f. 20). Assolto post mortem dalla Corte di Cassazione il 27 novembre 1959”.
Poche righe che sembrano cancellare anni di mistificazioni: il questore Candrilli non fu coinvolto né direttamente né di riflesso in quanto gli fu così frettolosamente contestato. Non uccise né ordinò di farlo; non torturò né impartì alcuna disposizione in merito. Se collaborazionismo militare vi fu, non andò mai al di là di quello che ci si sarebbe dovuti aspettare da un questore repubblichino nell’esercizio delle sue funzioni, indipendentemente da come la si voglia pensare circa la legittimità di una Repubblica Sociale che da molti (anche da chi scrive) viene considerata niente di meno che una forma di governo golpista creata nella latitanza degli organi ufficiali, la monarchia.
Egli pagò per la sua adesione incondizionata (oggi si direbbe “senza se e senza ma”..) a un’ideologia già condannata dalla storia e che come un gigantesco gorgo trascinò con sé nella sua caduta chiunque ebbe la sventura di trovarsi nei suoi paraggi: carnefici e vittime; uomini, donne, perfino ragazzini; colpevoli e innocenti.
Innocenti come il questore Manlio Candrilli.
Fonti consultate:
- Luciano Garibaldi, La pista inglese ed. ARES 2002;
- Ludovico Galli, Il questore di Brescia nella RSI, Brescia 2005
- Marino Ruzzenenti, La capitale della RSI e la Shoah: la persecuzione degli ebrei nel bresciano ed. GAM 2006
- studi di Maurilio Lovatti in Fondazione Civiltà Bresciana, 2009
- quotidiani dell’epoca: si ringraziano in particolare le redazioni de La Stampa e del Corriere della Sera per il materiale gentilmente concesso.
Si ringrazia inoltre il Sostituto Commissario della Polizia di Stato Flavia Dalla Libera per l’indispensabile consulenza fornita.
Per la redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore