SCALO ROMANA (l’assassinio dell’agente Fidenzio Manni, 1920)
Se questa storia fosse un film, ricorderebbe il telefilm pilota della serie tv “The Shield”, nel quale il capo di una squadra formata da poliziotti corrotti uccide l’agente che è stato infiltrato nel gruppo per incastrarli.
O forse, per le atmosfere d’epoca, ricorderebbe lo splendido “L.A. Confidential” ambientato nella Los Angeles degli anni ’50, in cui tre agenti, tre cavalieri con qualche macchia ma senza nessuna paura, indagando su una serie di omicidi scoprono una ragnatela di corruzione all’interno del Dipartimento. Uno dei detectives, interpretato da un grande Kevin Spacey, si rivolge ad un capitano per chiedere aiuto, senza immaginare che proprio il suo superiore è il capo degli agenti corrotti. Il personaggio interpretato da Kevin Spacey viene ucciso dal diabolico capitano, ma prima di morire riesce a lasciare il messaggio che permetterà ai due colleghi superstiti di scoprire la verità.
Ma questa storia non è un film.
E’ accaduta davvero, in Italia, a Milano.
Quasi un secolo fa.
Milano, 25 Novembre 1920
Il proiettile calibro 10,35 colpisce l’agente investigativo Fidenzio Manni in pieno volto, con un impatto devastante.
Il poliziotto precipita senza un urlo giù dal carro merci sul quale è appena salito, pistola in pugno a caccia del ladro che ha notato aggirarsi sul vagone.
Una frazione di secondo dopo crolla sulla ghiaia, come un albero abbattuto dalla tempesta.
Probabilmente è già morto prima che il suo corpo tocchi il suolo. Non può sentire l’abbaiare furioso dei cani, le urla strazianti del ladro catturato e lo strano sussurro di uno dei suoi stessi colleghi
“E adesso che cazzo facciamo?”
Gli anni ‘20 sono l’età d’oro dei cosiddetti “spiombatori” i criminali che si introducono nottetempo negli scali ferroviari, forzando i sigilli (i “piombi”, appunto) dei carri merci, svaligiandoli del loro carico. Le autorità reagiscono all’emergenza furti istituendo i “pattuglioni”, squadre composte da agenti investigativi, guardie regie e guardiani ferroviari che vigilano sulla sicurezza degli scali merci. Ma anche così, figurati se gli spiombatori rinunciano a quella caverna di Alì Babà che sono gli scali ferroviari.
Inizia una lotta tra forze dell’ordine e spiombatori, una battaglia sorda e violenta nella quale a volte ci scappa il morto, da una parte e dall’altra.
Come l’agente investigativo Fidenzio Manni.
Quando muore, ha 39 anni.
Nel 1905, dopo il servizio militare, si è arruolato in Polizia ed è stato destinato subito a Milano.
Ha cominciato dalla gavetta come agente di pattuglia, consumando le scarpe su e giù per i quartieri della vecchia Milano, specializzandosi nella caccia ai ladruncoli, ma ha trascorso poco tempo nella divisa blu e azzurra delle Guardie di Città. Qualche vecchio maresciallone della Mobile ha notato quella giovane guardia dal buon fiuto e, intuendone le capacità professionali, l’ha presa sotto la sua ala protettrice trasformandola in un ottimo investigatore.
L’articolo che il “Corriere della Sera” gli dedicherà a lui recita “…. si era sempre fatto distinguere per bravura, coraggio e passione….”, ma credo che allora come oggi, un poliziotto da strada avrebbe commentato in maniera più grezza, ma più vera “…era un grande sbirro…”.
Fidenzio è uno di quei poliziotti capaci di trascorrere lunghissime e pazienti ore di appostamenti in attesa di beccare i “cattivi” con le mani nel sacco, di inseguire da solo un borsaiolo in un mercato affollato di gente e, una volta agguantatolo, di trascinarlo per la collottola verso la questura facendo a sganassoni con i compari che vogliono liberare l’arrestato.
Perché Fidenzio ama il suo mestiere, è uno sbirro nato anzi, come si dice ancora oggi dei colleghi come lui, tutti lavoro e niente vita privata “ha sposato la Polizia”, specializzandosi nella caccia agli spiombatori, di cui diventa l’incubo.
Alla fine però ci casca anche lui. Agli inizi del 1919, a 38 anni suonati, quando la maggior parte dei suoi coetanei si è fatto una famiglia ed ha messo al mondo una nidiata di marmocchi, si decide al gran passo e si sposa con Maria Galluzzi, una ragazza molto più giovane di lui che nel settembre 1920 gli dà un figlio.
Vanno ad abitare in Corso di Porta Ticinese al 78, in un piccolo e decoroso appartamento di una di quelle case di ringhiera della vecchia Milano esistenti ancora oggi. dove Fidenzio trascorre con Maria e il loro bambino i giorni più belli della sua vita.
Ora Fidenzio potrebbe tirare i remi in barca e pensare ad un posticino tranquillo ma la vita del passacarte non fa per lui e si fa attirare da una proposta interessante. Qualcuno con un po’ di lungimiranza al Ministero ha deciso sull’esempio di altre nazioni, di studiare l’impiego dei cani nel servizio di Polizia. Fidenzio si è fatto avanti ed è diventato membro di quello che è l’embrione dei futuri reparti cinofili delle Forze dell’Ordine italiane. Rimane però un investigatore di strada.
Quella notte di novembre non è di turno, però decide ugualmente di andare a fare servizio di pattuglia nello Scalo Ferroviario di Porta Romana. Ma la domanda è: lo ha scelto davvero lui?
Questa notte Fidenzio si unisce ad un pattuglione che non è il suo, composto dagli agenti investigativi Luigi B. e Emanuele P., conduttori dei due bellissimi pastori tedeschi Max e Black, due guardie regie e tre guardiani ferroviari, ed inizia il pattugliamento dello scalo.
La prima ricostruzione, sul Corriere della Sera del 27 Novembre 1920, dirà che poco prima delle 4 del mattino del 26 Novembre, quando i tre guardiani ferroviari si sono già rifugiati al calduccio nei loro uffici, il pattuglione nota nel piazzale di scarico sette vagoni spiombati e, a bordo di uno di essi, un ladro intento a gettare dei rotoli di stoffa al di là del muro di cinta dello scalo.
I cinque poliziotti intimano l’alt al ladro, costringendolo a scendere. Dice di essere da solo, ma l’agente investigativo Manni non ci crede e sale a bordo del vagone, ma qui viene colpito in piena faccia da un proiettile sparatogli quasi a bruciapelo da un ladro rimasto appostato dietro alle cataste di tessuto.
I quattro agenti dicono che la cosa è stata così istantanea che non hanno potuto fare quasi nulla. Sono rimasti sotto shock e l’unica reazione è stata quella dell’agente B. che ha lanciato il suo Black contro il ladro catturato che ha cercato di approfittare della confusione per darsela a gambe ma finendo quasi sbranato dal cane poliziotto.
Quando giungono i rinforzi dalla Questura di Milano c’è la prima delle tante amare sorprese di questa vicenda. L’arrestato è un guardiano ferroviario in servizio presso quello stesso Scalo Romana. In ospedale parla per allontanare da sé lo spettro dell’ergastolo e quello che dice fa paura.
Quella sera stessa un gruppo di funzionari di Polizia ed ufficiali dei Carabinieri entra in una camerata della caserma dell’Arma di Milano e letteralmente scaraventa giù dalle brande due carabinieri ausiliari, Vincenzo M. ed Emilio E.
Secondo il guardiano arrestato l’assassino dell’agente investigativo Fidenzio Manni è il carabiniere Vincenzo M e l’arma usata è la rivoltella d’ordinanza del militare, una Bodeo modello 1889 calibro 10.35. Probabilmente, come cortesia interforze, il questore Gasti permette anche agli ufficiali dell’Arma di partecipare agli interrogatori dei carabinieri Vincenzo M. ed Emilio E. che sicuramente sono durissimi e spietati, come si usa in quegli anni, e che sono resi ancora più duri e spietati dalla rabbia degli inquirenti per l’assassinio dell’agente investigativo Fidenzio Manni e, per i carabinieri che partecipano all’interrogatorio, di avere tra le loro fila dei criminali.
Il questore Gasti rilascia un comunicato alla stampa, in cui dice chiaro e tondo che le indagini stanno proseguendo e che non tutte le responsabilità sono ancora definite e chiare.
Significa che il peggio, se di peggio si può parlare in questa brutta storia, deve ancora arrivare.
Ed infatti arriva il 16 Dicembre.
Sul Corriere della Sera appare un lungo articolo intitolato “TRISTI SORPRESE DOPO UN DELITTO – 4 GUARDIANI, 2 CARABINIERI E 3 GUARDIE ARRESTATE”
E’ successo che dopo giorni di stringenti interrogatori i due carabinieri ed il guardiano arrestati sono crollati ed hanno confessato facendo i nomi dei complici.
E forse non si tratta di un pugno nello stomaco per gli investigatori.
Si tratta di quasi tutti i componenti del pattuglione che nella notte tra il 25 ed il 26 novembre erano impegnati nella perlustrazione, ad eccezione dell’agente Luigi B., colui che ha lanciato Black alla caccia del ladro fuggitivo, l’unico che è riuscito a fare qualcosa mentre gli altri sono rimasti bloccati dallo shock…. lo shock….. ma certo, come no …..
Gli arrestati confessano tutti, tranne le due guardie regie e la verità viene fuori, almeno parzialmente.
L’organizzatore dei furti è l’agente investigativo Emanuele P., un neoarruolato in Polizia che fino all’estate precedente era stato guardiano ferroviario proprio allo Scalo Romana, da dove era stato licenziato perché sospettato di essere coinvolto nel furto di un grosso carico di tabacco dai vagoni in sosta. Secondo il Corriere P. era stato denunciato, ma non è vero. Si è tratta di una balla che le Ferrovie hanno raccontato al giornalista per salvare la faccia. E’ più verosimile che P. sia stato soltanto licenziato senza grandi clamori e che le Ferrovie, al momento dell’arruolamento di P. negli Agenti Investigativi non abbiano comunicato alla Questura i loro sospetti sull’attività extralavorativa dell’ ex guardiano.
P., avido come sempre, si è fatto riassegnare come poliziotto a Scalo Romana e qui ne ha approfittato per riprendere il suo lucroso secondo lavoro, forse anche grazie a complicità nelle Ferrovie che vanno ben al di là di qualche guardiano corrotto. Ma c’è qualcos’altro che dice il Corriere, certo grazie alle informazioni fornite dagli inquirenti, e che ci dà qualche elemento per comprendere questa vicenda. Il quotidiano scrive che “… guidando le ronde egli (cioè P.) lo faceva in modo di non disturbare i compagni che…lavoravano e poteva facilmente controllare l’azione dei cani poliziotti rendendo così inutile l’opera solerte degli agenti fedeli e del Manni specialmente…”.
Significa che l’agente investigativo Fidenzio Manni è un pericolo per P. e gli altri corrotti del pattuglione. E’ uno sbirro in gamba che non può essere comprato e va combattuto.
E’ anche per questo che ritengo che gli arrestati abbiano detto solo parzialmente la verità perché non credo che la morte di Fidenzio sia “solo” un delitto compiuto da un ladro che sorpreso dalla Polizia ha ucciso per sottrarsi all’arresto ma sia un vero e proprio omicidio premeditato.
Ricordiamoci che Fidenzio quella notte non dovrebbe essere di turno. Per quanto sia un poliziotto ligio al dovere ed innamorato del proprio mestiere, appare strano che quel 25 Novembre Fidenzio si sia offerto volontario con una squadra diversa dalla sua, una pattuglia formata da gente che non lo vede di buon occhio. Come appare strano che l’unico dei componenti del pattuglione a non venire arrestato sia l’agente Luigi B., l’unico che ha reagito al momento della morte dell’agente Manni.
Proviamo a fare un’ipotesi: l’agente investigativo Fidenzio Manni non vigila lo Scalo Romana di sua iniziativa, ma è stato incaricato dai propri superiori di sorvegliare il pattuglione e soprattutto l’agente investigativo Emanuele P., sul quale cominciano a sorgere molti sospetti, rafforzati da segnalazioni da parte di colleghi che “non ci stanno” o che nutrono dubbi su di lui. Se dovessi dire un nome su chi confida i propri sospetti ai superiori, avviando così un’indagine interna, penserei all’agente investigativo Luigi B., l’unico che “fa qualcosa” quella maledetta notte.
Ma P. riesce a intuire la trappola che si sta tendendo su di lui e agisce per primo.
Ricordate ad esempio il guardiano ferroviario che viene arrestato per primo, sul piazzale di scarico, appena prima dell’omicidio di Fidenzio? Ebbene non si dovrebbe trovare lì, ma da tutt’altra parte dello scalo, solo che un capo guardiano amico di Emanuele P. dopo avere “taroccato” il registro di servizio (e pure male, come se ne accorgeranno gli inquirenti) lo ha spostato sul piazzale di scarico.
Si tratta “soltanto” di spostare un complice all’interno della “caverna di Alì Babà” oppure il guardiano ferroviario corrotto porta un ordine infame al carabiniere Vincenzo M.?
Se è così, il furto sul carro merci è una trappola molto raffinata dalla quale l’agente investigativo Fidenzio Manni, “colpevole” di essere un poliziotto onesto, è destinato a non uscire vivo e contemporaneamente un messaggio diretto a chi, come l’agente investigativo Luigi B., o “non ci sta” oppure vorrebbe uscirne.
L’ho detto, è un’ipotesi ma non credo di essermi discostato di molto dalla realtà.
Quel 16 Dicembre 1920 il Corriere della Sera, raccontando degli arresti e della amara conclusione delle indagini scriverà
“ Sul fatto l’autorità si è imposto il massimo riserbo, ma non crediamo che il conservarlo all’infinito giovi al buon nome dell’intera massa degli agenti. Se taluni tutori dell’ordine hanno vergognosamente mancato al loro dovere, è bene che il pubblico lo sappia perché non coinvolga in un giudizio sfavorevole tutti i buoni. L’inchiesta è finita, gli atti di istruttoria sono già iniziati e il pubblico ha il diritto di sapere i nomi degli arrestati e il modo come si complottavano i furti allo scalo Romana”
Parole degne, ancora oggi da sottoscrivere per altri amari casi, ma che cadono nel vuoto.
Nei giorni successivi non appaiono più notizie sull’assassinio dell’agente investigativo Fidenzio Manni e sugli arresti degli agenti e dei guardiani corrotti.
Non dipende solo dal voler nascondere la polvere sotto il tappeto, di salvare il buon nome di Polizia e Carabinieri. Nel 1920 la crisi politica e sociale italiana sta raggiungendo il culmine, con l’occupazione di Fiume che porta l’Italia sull’orlo della guerra civile. Una storia come quella di Scalo Romana potrebbe minacciare l’immagine delle stesse Forze dell’Ordine al momento dell’ emergenza, con conseguenze politiche e di ordine pubblico difficili da controllare.
Per Polizia, Carabinieri e Magistratura quindi è meglio seppellire i corrotti sotto una serie di pesanti condanne, dimenticarsene e salvare la faccia.
Maria Galluzzi, la moglie di Fidenzio, crescerà con grandi sacrifici, ma con grande amore e grande coraggio il suo bambino nell’Italia degli anni ’20 e ’30 che presto verrà sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale ma che poi si risolleverà con la Ricostruzione. Non ho dubbi che Maria abbia tirato su il figlio facendolo diventare un uomo onesto e coraggioso, degno di suo padre, e che questi, una volta adulto, abbia contribuito con la sua onestà, il suo lavoro ed il suo valore alla Ricostruzione della Nazione.
Non ho trovato nulla che confermi queste mie certezze sulla vita della famiglia Manni negli anni successivi, ma ugualmente non ho dubbi in proposito.
Perché dalla moglie e dal figlio di Fidenzio Manni non mi potrei aspettare altro.
Fonti principali: “Corriere della Sera” del 27 e 28 Novembre e del 16 Dicembre 1920; “la Stampa” del 16 Dicembre 1920
Per la Redazione Cadutipolizia: Fabrizio Gregorutti