Un giorno di ordinaria follia
UN GIORNO DI ORDINARIA FOLLIA
di Gianmarco Calore
Sono le 6:20 del 4 settembre 1975.
Alla caserma della Polizia Stradale “Milliava” di Padova c’è un giovane appuntato di pubblica sicurezza che sta per prendere servizio. Si chiama Antonio Niedda. E’ comandato con orario 7 – 13 e lui, come sempre, è arrivato al lavoro in largo anticipo. E’ un preciso, Antonio: uno che tiene alla sua forma fisica e che ogni giorno approfitta della pista di atletica leggera dell’adiacente reparto Celere per la consueta corsetta. Poi una bella doccia. Infine, l’adorata Uniforme con i Centauri. Si prepara con la stessa meticolosità con cui sovrintende ad ogni compito che gli viene assegnato: l’Uniforme estiva atlantica, ancora il modello a maniche lunghe e con la cravatta, deve essere impeccabile. Un’ultima lucidata agli stivali e poi giù in cortile a prendere in consegna il mezzo di servizio che allestisce con precisione quasi maniacale: un vecchio furgone Fiat 238 con la livrea grigio-verde, carico di materiale per viabilità e rilievo di incidenti stradali.
Arriva anche Armando, il suo maresciallo capo-pattuglia. Si reca al corpo di guardia per ritirare le consegne del giorno; dopo averle lette, il suo sguardo si incupisce. Raggiunge Antonio al lavaggio auto proprio mentre lui sta finendo di asciugare il furgone, in testa mille pensieri…
“Antonio, carica in macchina anche i giubbetti e i M.A.B., che oggi ci tocca l’antirapina”.
Padova da qualche anno non è più la stessa: da sonnacchiosa cittadina di provincia è balzata agli onori della cronaca nera per essere diventata una delle “capitali” del terrorismo eversivo. Uno dei suoi “cattivi maestri”, Antonio “Toni” Negri, insegna alla vicina facoltà di Scienze Politiche. E la politica è alla base degli ormai quotidiani scontri di piazza che vedono i colleghi del 2° Celere impiegati senza sosta non solo lì, ma in tutta Italia. In più, vi sono delinquenti comuni sempre più agguerriti che scorrazzano per le strade sparando senza misericordia. Gli stessi terroristi hanno capito che per finanziare le loro malefatte è molto più conveniente rapinare una banca o un portavalori che rapire un industriale.
Antonio obbedisce all’ordine senza discutere. Del resto, ha scelto proprio lui di tornare in strada, rinunciando ad una molto più “comoda” carriera nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro, di cui è stato per anni una giovane “promessa”. Ma del resto, con una moglie e due bimbi piccoli a casa, bisogna per forza guardare anche alla “pagnotta”, non solo alle medaglie…
Escono in perfetto orario dalla caserma.
“Verona Pavia 21, siamo in uscita” annuncia per radio Armando.
“Ricevuto. Zerosedici, buon lavoro” risponde solerte la sala radio.
La mattinata scorre liscia: un paio di controlli al casello autostradale di Padova Est; il solito incidentino e l’immancabile contravvenzione ad un camionista che non ha rispettato il segnale di “stop”. Ma c’è sempre quel servizio di antirapina da fare, per cui alle 9:30 il furgoncino della “Stradale” si dirige verso Ponte di Brenta, una zona di Padova che è a metà tra una frazione autonoma e un quartiere del capoluogo. Lì vi sono banche, un paio di gioiellerie, un’armeria: tutti bersagli possibili per il delinquente di turno. Il furgoncino imbocca via delle Ceramiche, una stradina stretta e tortuosa che dall’arteria principale porta verso i binari della ferrovia: un posto buono per “mollare” auto che “scottano”. La pattuglia raggiunge la prima curva stretta a destra e lì nota una Fiat 128 bianca con due persone a bordo ferma sull’altro lato della strada. Sarà stato perché la macchina è parcheggiata contromano, sarà stato per le due facce da galera che vi sono sedute dentro, fatto sta che Armando decide di controllarla. Antonio ferma il mezzo sulla destra: entrambi i colleghi scendono, indossando professionalmente e diligentemente il berretto. Armando si avvicina mentre Antonio resta leggermente defilato.
“Buongiorno. Favoriscano i documenti, per favore” intima il capo pattuglia.
I due se ne escono con due patenti di guida che “puzzano” di contraffazione lontano un chilometro. Armando se ne accorge; loro si accorgono che lui se ne è accorto. Uno dei due si chiama Carlo Picchiura: è una gran brutta bestia, uno che fin dagli esordi ha aderito all’ala “dura” delle brigate rosse mettendosi in evidenza per la sua violenza e per la sua spietatezza. In quei giorni è a Padova per fondare una “colonna” brigatista locale: un futuro leader, insomma. Ha con sé una Beretta calibro 7,65 con la matricola abrasa e il colpo in canna e non esita ad usarla. Appena Armando gli volta le spalle per dirigersi sul furgoncino per i controlli di rito, scende rapido dalla vettura e apre il fuoco. Antonio, che stava seguendo la scena, viene colpito subito e crolla a terra senza un lamento, fulminato da cinque proiettili: il suo berretto diligentemente indossato rotola lontano, vicino ad un muretto bianco. Armando si salva solo grazie ad un balzo che lo pone al riparo del furgoncino e grazie al fatto che la pistola di Picchiura si inceppa. I due si separano: il primo terrorista riesce a fuggire, mentre Picchiura tenta una fuga disperata verso i binari della ferrovia. Armando fa a tempo a urlare tutta la sua disperazione alla radio, poi inforca una bicicletta di un uomo che stava sopraggiungendo e si lancia all’inseguimento della belva. Lo riesce a raggiungere, a placcare e ad ammanettare. Quando torna al furgoncino, in lontananza si odono le sirene delle “volanti” e dell’ormai inutile ambulanza.
Così è morto l’appuntato di P.S. Antonio Niedda, in un caldo mattino di tarda estate che tutto lasciava presagire tranne quello.
Il resto è affidato alle foto dell’epoca: il viavai di magistrati, funzionari e ufficiali di P.S. sul posto; una macchia di sangue sull’asfalto; un berretto rigido vicino ad un muretto bianco. Oggi su quel muretto c’è una lapide che ricorda ai passanti quanto è accaduto e quanto ha potuto l’idiozia umana. Ma la strada è stretta, tortuosa, poco trafficata: i pochi che vi transitano sono per lo più residenti che ormai non la notano nemmeno, tanto fa parte dell’arredo urbano.
C’è però un’altra foto d’epoca che è stata pubblicata da un giornale: essa ritrae una donna seduta su un divano di casa. Indossa un vestito a fiori, i capelli scuri sono ordinatamente raccolti dietro la testa. Al suo fianco vi sono due bambini, troppo piccoli per capire una disgrazia così grande. Uno di loro si chiama Salvatore: è il più grande, quello che d’ora in avanti sarà chiamato a fare da capofamiglia. Ha uno sguardo fermo che guarda dritto nell’obbiettivo del fotografo. Oggi è un Assistente Capo della nostra grande “famiglia” e svolge il suo lavoro in un posto dove si richiede grande altruismo, il posto di Polizia dell’Ospedale Civile. Lo stesso altruismo del padre.
Via delle Ceramiche è una strada stretta e tortuosa come strette e tortuose sono le strade della memoria, più avvezza a percorrere vie larghe e perciò più “comode”. La lapide incastonata su quel muretto bianco, proprio dove era parcheggiata quella maledetta 128, è stinta e poco curata come poco curato è il ricordo che dovrebbe mantenere chi ha il dovere istituzionale di farlo.
Nel nostro piccolo ci siamo noi. Saremo anche pochi, sentimentali, nostalgici, forse anche un po’ d’altri tempi, non so. Ma una cosa è certa:
noi non dimentichiamo.
Per la Redazione Cadutipolizia: Gianmarco Calore