UN MONDO NUOVO (il vicebrigadiere Vincenzo Piccioni e l’affondamento del piroscafo “principessa Mafalda”
“…bastimento l’è andato a fondo e in questo mondo non torna più, non torna più, non torna più”
(canto degli emigranti italiani)
Tutto quello che rimane del vicebrigadiere di Pubblica Sicurezza Vincenzo Piccioni sono la data di morte, il 25 Ottobre 1927 e una brevissima nota sulle cause, redatta chissà quando da qualche annoiato ed approssimativo impiegato ministeriale : “ incidente di navigazione”. In quelle tre parole è raccolta la sorte del vicebrigadiere Vincenzo Piccioni, appartenente alla Regia Questura di Genova e incaricato della scorta ad un carico di valuta diretto alla sede della Banca d’Italia di Montevideo, e di oltre 650 suoi sventurati compagni, scomparsi nel naufragio della “Principessa Mafalda”, una delle più grandi tragedie dell’emigrazione italiana, un massacro provocato dall’incompetenza, dalla avidità e dalla vigliaccheria.
Comincia tutto con la fine della guerra di secessione americana e l’abolizione della schiavitù, prima negli Stati Uniti e poi in Brasile.
E’ il momento della grande emigrazione dall’Europa verso le Americhe. Sono in milioni coloro che abbandonano il Vecchio Continente per il Nuovo, dove nelle speranze ingenue degli emigranti, raccontate nello splendido film “Nuovomondo”, le strade sono lastricate d’oro, non esiste l’inverno, i fiumi sono fatti di latte e non si soffrirà mai più la fame. Partono dalle zone più povere d’Europa, dall’Irlanda, dalle zone più arretrate dell’Impero Russo ed austroungarico, dalla Scandinavia.
E dall’Italia.
Non è vero, come scrivono certi cattivi storici, che si parte solo dal Meridione. La fame e la miseria colpiscono tutta l’Italia. Si fugge dalla Calabria e dal Veneto, dalla Sicilia e dal Piemonte, dal Friuli e dalle Puglie. Interi villaggi vengono abbandonati per inseguire il miraggio della fortuna e del riscatto, mentre gli emigranti, come ingenua rivalsa, sbeffeggiano i “signori” che saranno costretti a zappare la terra al posto di coloro che sono partiti.
La realtà è ben diversa e terribile, come racconta Gian Antonio Stella nei suoi bellissimi libri “L’Orda” e “Odissee”, che dovrebbero essere letti nelle scuole per ricordare quello che eravamo e quello che siamo diventati.
Gli italiani vengono sfruttati come manodopera a bassissimo costo nelle fabbriche statunitensi e francesi, ridotti in semischiavitù nelle piantagioni brasiliane ed argentine, truffati da bastardi senza scrupoli, vengono linciati in decine di sommosse razziali dalla Francia agli Stati Uniti e dall’Argentina all’Australia, le donne italiane vengono vendute come prostitute nei bordelli di mezzo mondo, i bambini vengono venduti ai pedofili. Ma forse nulla è peggio delle traversate, più simili alla tratta degli schiavi africani che a trasferimenti di lavoratori.
I viaggi per mare sono un’ecatombe che costa la vita a centinaia di poveri cristi. La schiavitù degli africani è diventata illegale, non quella dei “negri bianchi”, degli italiani, stipati peggio delle bestie nelle stive delle navi dirette verso le Americhe, ammassati quasi l’uno sull’altro da armatori avidi e da capitani senza scrupoli. Nelle stive l’aria è resa irrespirabile dal fetore del vomito e delle feci, dal puzzo dei carburanti e dalle esalazioni di centinaia di esseri umani. E’ superfluo dire che in queste condizioni le malattie provocano vere e proprie stragi, delle quali armatori e comandanti se ne fregano. Già nel 1867 un capitano genovese viene arrestato in Uruguay e riportato in Italia in catene per avere provocato la morte per malattia di decine degli emigranti a bordo della sua nave. Nel 1911 la compagnia armatrice della nave “Massilia” per risparmiare ritira metà dei vasi di siero (già insufficienti) destinati alla vaccinazione degli 800 passeggeri. C’è l’aguzzino che comanda il piroscafo “Carlo R.” salpato nel 1894 verso il Brasile e che lascia morire di malattia 211 emigranti su 1500, ci sono gli schiavisti che lasciano morire nel 1893 di colera 96 passeggeri della nave”Remo”, ma il genocidio di un intero popolo, del NOSTRO popolo, continuerà ancora per oltre un secolo sulle carrette del mare, navi ormai declassate e ritenute non idonee al trasporto di merci, ma non a quello di tonnellate di carne umana. Carne umana ritenuta sacrificabile e che viene immolata all’altare del Dio profitto. Come i 149 italiani morti nel naufragio del mercantile “Ortigia”, affondato al largo dell’Argentina nel 1880, come gli 80 italiani scomparsi nell’affondamento del “Sudamerica” nel 1888, come i 576 annegati, per la maggior parte italiani, scomparsi nel 1891 nell’affondamento della nave “Utopia”, come gli oltre 400 italiani (ma forse sono più di 500) affogati nel naufragio della “Sirio” nel 1906, una strage dovuta al fatto che per risparmiare sulle carte nautiche era stata acquistata una cartina da quattro soldi e che per economizzare sul carbone la nave era passata in un tratto della costa spagnola dove gli scogli affiorano quasi a pelo d’acqua.
Come le centinaia di italiani del “Principessa Mafalda”.
Un tempo è stata il transatlantico prediletto dalla borghesia brasiliana, argentina e uruguaiana. Nel 1927 è un piroscafo che inizia a sentire l’usura del tempo, dopo oltre cento traversate dell’Atlantico.
Quando salpa da Genova, con parecchie ore di ritardo, a bordo si trovano centinaia di passeggeri, per la maggior parte poveri emigranti calabresi e veneti. Prima ancora di superare Gibilterra i motori della nave si fermano per ben otto volte, ma il comandante Simone Gulì, che le cronache del tempo spacciano per “lupo di mare” decide di proseguire, nonostante prima della partenza avesse detto alla moglie di avere oscuri presentimenti e che la propria nave era ormai prossima allo smantellamento. Il “Principessa Mafalda” si ferma per riparazioni a Dakar e alle isole di Capo Verde poi procede verso il Sudamerica a bassa velocità e con una inclinazione sempre più accentuata poi, alle 17 del 25 Ottobre 1927 un fortissimo botto scuote la nave, mentre si trova al largo delle coste brasiliane. L’asse di un’elica si è staccata di netto e dalla falla entra impetuosa l’acqua. Il comandante e gli ufficiali cercano di mantenere una parvenza di calma, ma la situazione precipita rapidamente ed il caos è totale. Non si riesce ad ammainare correttamente le scialuppe, tanto che alcune si sfasciano contro le murate. Il panico dilaga e comandante e ufficiali, che molti testimoni definiscono come inefficienti, non riescono ad arginare la catastrofe. Alcuni passeggeri in preda al panico si gettano sulle scialuppe, che si capovolgono e in molti annegano. Quando il “Principessa Mafalda” viene inghiottito dall’Atlantico, trascinando con sé il suo carico di innocenti, il mare ribolle di centinaia di disperati che si aggrappano a rottami, a botti, a casse, circondati dagli squali…in molti, prima dell’arrivo dei soccorsi, si lasciano andare esausti. Sono i feriti, sono le donne, sono i bambini. Il tempo di un sospiro ed il mare si chiude su di loro. I soccorsi, da parte delle altre navi in transito e dalle unità delle Marine Militari argentina, brasiliana e uruguayana arrivano presto e un giovanissimo ed eroico marinaio argentino di origine italiana, Anacleto Bernardi, muore nel tentativo di salvare un anziano naufrago.
In Italia la notizia della tragedia viene passata quasi sotto silenzio.
Il regime fascista preferisce non turbare la sensibilità degli italiani e sulla stampa si parla di “poche decine di vittime”. Solo una settimana dopo sul Corriere della Sera, appare un titolo microscopico che parla di 314 morti. Forse la cifra non è nemmeno vera perché alla stampa argentina le vittime risultano essere 657. In Italia invece, si straparla retoricamente della perfetta efficienza del “Principessa Mafalda” , dell’eroismo del comandante e dell’equipaggio, dell’onore navale.
Si preferisce dimenticare la disastrosa gestione dell’emergenza da parte dell’equipaggio, le cattive condizioni della nave segnalate da alcuni marinai ed il fatto criminale che le scialuppe potevano al massimo trasportare 500 persone nonostante fossero stati imbarcati 977 passeggeri e 287 marinai…
evidentemente gli armatori avevano pensato che si poteva risparmiare sulle dotazioni di salvataggio, tanto chi se ne importava di quattro contadinotti calabresi e veneti….
Bastardi!
Il vicebrigadiere Vincenzo Piccioni e le centinaia di uomini, donne e di bambini assassinati nel naufragio del “Principessa Mafalda” riposano da 81 anni sul fondo dell’Oceano Atlantico, al largo delle coste del Brasile, senza avere mai ricevuto giustizia dagli Uomini.
Sono il simbolo dei 27 milioni di Italiani che lasciarono la Patria, cercando un avvenire per loro stessi ed i loro figli e spesso trovarono la morte.
Sono i nostri Fratelli Perduti.