Contessa Entellina, 18 ottobre 1916: la morte di Castelluzzo e Stabile
Prefazione
(di Fabrizio Gregorutti)
Trincee. Fango.
Assalti alla baionetta stroncati da feroci raffiche di mitragliatrice.
L’Isonzo rosso di sangue ed il Piave che mormorava.
Le montagne in fiamme e le rocce del Carso ridotte a pezzi da migliaia di granate.
Battisti che muore impiccato nel Castello di Trento e i disertori fucilati nelle retrovie.
Queste sono le immagini, più fotografie che Storia, che abbiamo della Grande Guerra, del “suicidio dell’Europa” che sconvolse il nostro Continente tra il 1914 ed il 1918 e che investì il nostro Paese a partire dal 24 Maggio 1915.
Il protagonista è quasi sempre il giovane fante, con l’elmetto Adrian calato sugli occhi, che oltre bordo della trincea stringe nervosamente il moschetto ’91, attendendo l’ordine di attacco. Lo vediamo riprodotto in centinaia di monumenti in tutte le piazze d’Italia, ritratto in pose eroiche e fiere, più simile alla riproduzione di un mito che del racconto di un Uomo o di un Paese.
Ma c’è un altro Soldato, un altro Uomo, un altro Paese di cui ignoriamo tutto e ce ne parla l’amico e collega Giulio Quintavalli, in questo articolo che abbiamo l’onore ed il piacere di ospitare su queste pagine e che sarà il primo di una serie dedicata alla Polizia del primo Novecento. E’ un racconto duro ed avvincente che ci parla di una guerra sporca combattuta al di là del fronte, del Piave che mormorava e dei campi di battaglia insanguinati della Venezia Giulia, del Veneto e del Trentino.
Un racconto estremamente ben scritto e documentato narrato da uno storico appassionato e che ci parla dei Soldati sconosciuti, i Poliziotti che negli anni della Grande Guerra mondiale difesero l’Italia da spie, borsaneristi, ladri, razziatori e disertori e che troppo spesso caddero sul campo.
Come ben descritto nel suo libro “Da sbirro ad investigatore” (ed. Aviani, 2017) alla cui imprescindibile ed essenziale lettura rimando il Lettore, quegli uomini che percorrevano le campagne alla caccia dei disertori e dei renitenti alla leva (non sempre i giovani spaventati descritti da certa storiografia) o che cacciavano le spie ed i sabotatori nemici nelle città, contribuirono a cambiare non solo della Polizia, ma la stessa Italia.
Attraverso il suo libro, ben scritto, estremamente scorrevole e documentato, si dipana la storia sconosciuta del fronte interno italiano, una storia mai raccontata prima se non per sommi capi e in maniera quasi sempre sbrigativa, privilegiando lo studio dei fronti dell’Isonzo, di Asiago e del Piave.
Nel libro di Giulio emergono le grandi figure della Polizia del primo Novecento, come l’ispettore Battioni o il delegato Ettore Messana, destinato ad attraversare nel bene e nel male la storia d’Italia della prima metà del secolo scorso, da Contessa Entellina alla strage di Portella della Ginestra ma anche gli umili agenti come Stabile, Castelluzzo e Rossi che versano il loro sangue sulle colline arse dal sole e nelle strade delle città o negli ospedali da campo. E i “cattivi” che emergono dal magma del “fronte” siciliano descritto nel lavoro di Quintavalli. Come Messana, appunto, un uomo buono per tutte le stagioni, che inizia la carriera durante la Democrazia Liberale, raccoglie i suoi allori durante il Fascismo e termina la sua carriera in modo inglorioso nei primi anni della Repubblica, nei misteri di Portella della Ginestra e dell’affare Giuliano. O come Calogero Vizzini, il capomafia di Villalba che proprio nello sporco traffico di bestiame muove i suoi primi e sicuri passi e che nei quarant’anni sarà il protagonista oscuro della storia di Sicilia e d’Europa, dallo sbarco alleato, ai legami tra Stato e mafia durante il caso Giuliano ed all’ascesa della mafia della droga.
Non sembra ieri.
Lo è.
Nella fotografia, il vicebrigadiere delle guardie di città Giuseppe Stabile, uno dei protagonisti di questo racconto. (si ringrazia Giulio Quintavalli)
Contessa Entellina, 18 ottobre 1916: la morte di Castelluzzo e Stabile
Con l’approssimarsi del Centenario della fine della Grande Guerra desidero tratteggiare i principali fatti d’arme che videro come protagonisti poliziotti (funzionari di P.S. e guardie di città) in quei quaranta mesi di guerra.
Non sono pochi (in relazione all’organico reale) i funzionari di P.S. che, animati da fervore patriottico, pur essendo esonerati dalla chiamata alle armi, decisero di indossare quella stessa uniforme grigioverde che dismisero anni prima dell’arruolamento in Polizia per soddisfare gli obblighi di leva; uomini spinti da quella forte istanza di scendere direttamente nei campi di battaglia per la difesa dei confini nazionali, cacciare lo straniero, conquistare quei territori dell’Impero austroungarico che, da anni, rivendicavano di professare con maggiore libertà la propria italianità pur sotto l’aquila bicefala. Territori che, durante la guerra, onorarono il proprio pegno all’Italia con migliaia di figli che scelsero di combattere sotto le insegne regie. Funzionari di P.S., le cui principali vicende saranno prossimamente trattate da Gregorutti.
Mi limito a tratteggiare le principali dinamiche che condussero alla morte per causa di servizio alcune guardie di città, nella consapevolezza di aprire un primo e parziale squarcio su quello che fu un fenomeno tutt’altro che trascurabile. Morte dovuta, oltre a cause “dirette” – alcuni conflitti a fuoco con disertori e criminali -, anche a cause “indirette”, come malattie e gravi patologie contratte in servizio e per causa dello stesso (e un bombardamento navale sulla città di Ancona nei primissimi giorni del conflitto). Circostanze che, in tempo di pace, di certo non avrebbero condotto a sì nefaste conclusioni.
Le cronache del tempo, infatti, testimoniano diffusamente le pessime condizioni igieniche degli alloggi di servizio delle guardie di città (tanto che vi furono alcuni interventi della sanità pubblica), e ancor peggiori condizioni lavorative.
Poliziotti costretti a turni senza né riposo né cambio ininterrottamente per più giorni, colpiti dalle inclemenze delle intemperie. “Appiattati” nei pressi di alberghi, abitazioni, covi e basi dello spionaggio nemico per giorni e giorni: situazioni tutt’altro che infrequenti durante il pedinamento di cittadini stranieri, sospette spie, sabotatori e fiancheggiatori dell’Evidenzbureau, il temibile servizio segreto austriaco.
Servizi che portarono spesso i nostri “antichi” colleghi in luoghi promiscui e malsani (bettole, postriboli…), in ospedali e sanatori, luoghi non sempre sicuri attese le deteriorate condizioni di igiene e salute pubblica.
Tra questi oscuri eroi in kepy e tunica blu scuro profilata blu senza dignità di memoria la guardia di città Francesco Rossi, deceduto in un ospedale da campo a Verona nel novembre 1918; cittadino di Giulianova, è stato ricordato (dopo un secolo di oblio) nel maggio 2018 in un convegno dove, alla presenza del prefetto, del questore e del sindaco, è stata inaugurata una lapide ora collocata nel monumento ai Caduti militari suoi conterranei nel locale Cimitero. Per l’occasione, chi scrive ha avuto modo di esporre molto brevemente il ruolo della Polizia nella Prima guerra mondiale.
La guardia di città Rossi, sebbene lontano da trincee e onori, come tanti altri poliziotti, svolse un’opera silente, invisibile e professionalizzata contro il crimine, riscoperta grazie alla tenacia di un giornalista sangiulianovese, Walter De Bernardinis.
Ritornando alla vicenda bellica, le eccezionali circostanze di servizio spinsero Palazzo Braschi (sede del Ministero dell’Intero) a sospendere congedi, permessi, proscioglimenti, scadenze di ferma e di dettare nuove e rigidissime disposizioni di servizio del personale di P.S.. Come in Sicilia, dove la caccia alla criminalità abigeataria vide le squadriglie a cavallo di Battioni, direttore del neo Ufficio Centrale Abigeato Palermo, impegnate in infiniti ed estenuanti servizi di perlustrazione a caccia di mandrie depredate per il mercato clandestino. E dove di prassi il servizio durava ininterrottamente un anno, fatto di notti all’addiaccio, estenuati galoppate e appostamenti, generose dosi di coraggio, fatica e pazienza, buona mira e ….cibo in scatolame.
L’abigeato era un fenomeno criminale che, con altri, costituisce l’impegno della Polizia di Stato nel “fronte interno”.
Le mandrie clandestine venivano riciclate nel mercato nero, con grave rischio per la salute pubblica perfino al fronte, dove quelle carni, accompagnate da falsi documenti veterinari, sfamavano i soldati.
Mi spiego: sin dai primi mesi del conflitto tra i soldati di origine siciliana correva voce che nelle loro terre, approfittando della loro assenza, dell’omertà della popolazione, della minore presenza delle forze di polizia, bande di balordi stessero scorazzando in armi per razziare il bestiame e depredare la povera gente.
Le bande chiedevano il riscatto o riciclavano i capi sostenute da falsa documentazione veterinaria; uno schiaffo agli allevatori, prevalentemente povera gente, e un rischio per la salute pubblica, anche in trincea, dove quella carne giungeva quotidianamente come scatolame, bollito, brodo…..
L’abigeato era combattuto (in Sardegna) con il coraggio delle squadriglie di Arma e Polizia e la Legge sarda del 1898, che obbliga gli allevatori di marcare ogni capo di bestiame con marchi e segni padronali, depositati all’Anagrafe bestiame comunale. Una “matricola” che, in caso di furto, smarrimento o sospetta provenienza illecita del capo, essendo diversa tra località e località, in assenza di un’unica Anagrafe regionale, poco sarebbe servita agli uomini di legge per risalire al proprietario dei capi.
Inoltre, il flusso di denunce di furto di bestiame non confluiva in un unico archivio, forse il più grosso ostacolo per gli inquirenti: non stupisce che sotto il naso delle autorità avvenivano consistenti migrazioni da un capo all’altro della Sardegna di mandrie clandestine verso nuovi e “sicuri” pascoli, lontani dal luogo del furto. E dall’occhio del proprietario.
La guerra nei mari stava bloccando l’importazione di carne dall’America latina, la Francia aveva interrotto le vendite all’Italia, dove la mobilitazione sottraeva braccia e pascoli proprio quando l’esercito richiedeva gradi quantitativi di carne e bestiame (per trasporto, soma…). Un affare lucroso che richiamava i tentacoli della criminalità siciliana.
Proprio sull’Isola il Governo voleva puntare per incrementare l’allevamento; per questo nella primavera del ’16 il governo corse ai ripari ristrutturando il servizio contro l’abigeato con nuove norme, uomini e servizi, che affidò ad Augusto Battioni, esperto Ispettore di P.S.. Egli ristrutturò completamente il Servizio squadriglia con nuove forze – mille tra poliziotti e carabinieri a cavallo in borghese – che, distinti per zone con itinerari stabiliti, sotto precise norme, batteva ininterrottamente il terreno per stanare la criminalità abigeataria, che Battioni (a buon ragione) riteneva appartenere allo stesso circuito delinquenziale di disertori e renitenti alla leva. In pratica, i boss mafiosi stavano puntando sull’intreccio tra abigeato e diserzione per ingrossare le fila dei propri picciotti e rimpinguare i loschi affari.
Le quasi 200 squadriglie di poliziotti e carabinieri sostennero numerosi conflitti a fuoco e catturarono centinaia di disertori.
Durante un servizio di squadriglia il 18 ottobre 1916 nel territorio di Contessa Entellina (Palermo) mirato a stanare un’agguerrita banda che, da mesi, stava imperversando le genti locali, la squadriglia del delegato Ettore Messana composta dagli «agenti scelti» brigadiere g.c. Giuseppe Stabile, guardia scelta Sante Castelluzzo, guardia Launeri, Rumè, Scivè, Ferraro, Monaco e Sponsale (già distintasi per la cattura di pericolosi abigeatari tanto che alcuni suoi elementi erano stati precedentemente decorati al valor militare), avvistò verso le ore 12 nella strada che da S. Margherita conduceva a Contessa quattro individui a cavallo armati di fucili, diretti verso l’abitato. I poliziotti accertavano con un binocolo che i quattro, accortisi della loro presenza, stavano seguendo i propri spostamenti; improvvisamente i quattro si allontanavano al galoppo verso l’ex Feudo Costiera. La squadriglia gettava a terra la zavorra (bisacce, coperte, cibo, cartine, ordini di servizio, fotografie dei ricercati, binocoli, lampade a olio…) per inseguirli. Dopo un breve inseguimento, appena giunta nei pressi della collina del feudo, i quattro in fuga si dirigevano verso un feudo confinante, possibile via di fuga.
Appostatisi a terra con le armi in pugno e riparati da alcuni massi, i banditi scaricarono i fucili sui poliziotti colpendo Stabile a una gamba.
Gli agenti, colti di sorpresa, persero attimi preziosi e Castelluzzo, trovandosi in posizione avanzata, sebbene smontato da cavallo, restava esamine crivellato da una seconda scarica.
Stabile, benché con l’arteria femorale recisa, esplodeva quattro colpi mentre gli altri poliziotti, protetti dalle asperità del terreno, rispondevano al fuoco provocando la fuga dei delinquenti.
I poliziotti rimasti illesi trovavano lo Stabile esamine e trasportavano Castelluzzo in ospedale a Palermo, dove decedeva dopo due giorni.
La motivazione della medaglia d’argento al Valor Militare attribuita ai due poliziotti: “inseguiva animosamente quattro malfattori armati e, raggiuntili, sosteneva con essi vivo conflitto a fuoco, durante il quale, dopo aver dato prova di coraggio, cadeva vittima del proprio dovere.” (r. d. 22 agosto 1917).
Per approfondimenti sul ruolo della Polizia nella Prima guerra mondiale: Da sbirro a investigatore. Polizia e investigazione dall’Italia liberale alla Grande guerra, Giulio Quintavalli, Aviani e Aviani editori Udine, 2017.
Un documento unico questo libro. Bravo Giulio Quintavalli! Onorato d’averti conosciuto.
ho copiato
Grazie Giulio Quintavalli ,…grazie al nostro comandante dei CC , Biagio Catalano,..si è svelato il mistero della Stele nel nostro Cimitero di Contessa, perché in contatto con ufficio studi dell’ Arma dei CC ,..si è risaliti alla tua pubblicazione,sui caduti di polizia di stato.