L’URLO DELLA GUERRA (II^ Parte: l’aspirante ufficiale Giuseppe Cuffaro, primavera- estate 1916)
L’URLO DELLA GUERRA
(l’aspirante ufficiale Giuseppe Cuffaro, 1916- II parte)
Il Pal Piccolo, come il Freikofel ed il Pal Grande, le altre cime della breve catena al confine tra Italia ed Austria che dal Passo di Monte Croce Carnico porta alle Crete di Timau, ha come cima un pianoro piuttosto accidentato di tipo carsico, dove spuntoni e cocuzzoli di roccia si alternano a doline e piccoli valloncelli.
Nella parlata di origine carinziana del sottostante paese di Timau, il nome “Pal” significa letteralmente “Pascolo”. Era qui che, sino al maggio del 1915, i pastori ed i malgari carnici e carinziani delle sottostanti valli dei torrenti But ed Anger portavano a pascolare greggi e mandrie. Doveva essere un posto splendido, dove il grigio della pietra si alternava al verde dell’erba e dei pini ed agli incredibili colori dei fiori di montagna in primavera ed al panorama spettacolare che spazia dai monti della Carnia a sud alla catena dei Tauri, nell’Austria Centrale.
Un mondo di malghe, casere, di greggi e mandrie, di duro lavoro e di pace che scompare per sempre il 24 maggio 1915, con l’ingresso in guerra dell’Italia.
Sul Pal Piccolo i combattimenti iniziano la notte stessa dello scoppio del conflitto ed impegnano alpini, fanti, artiglieri e guardie di finanza contro schuetzen e jaeger austriaci.
Le quote più alte della montagna vengono conquistate dagli alpini il 27 maggio, dopo tre giorni di battaglia. E’ l’inizio di una storia epica di coraggio e di morte, di eroismo e codardia, di valore e di disperazione che per due anni e mezzo travolgerà le Alpi Carniche.
Il 14 giugno gli austriaci contrattaccano investendo il Pal Piccolo con un uragano di fuoco di artiglieria, accanendosi contro il settore tenuto dal XX Battaglione della Finanza.
Prima dello scoppio della guerra la Regia Guardia di Finanza viene chiamata a concorrere allo sforzo bellico con l’invio di alcuni battaglioni.
Nella sua infinita sapienza, però il Comando del Corpo non invia al confine unità con esperienza di montagna, ma reparti destinati inizialmente ai settori costieri e trasferiti all’improvviso a quasi duemila metri di quota, mentre i battaglioni “alpini” della Finanza vengono spostati in pianura, vai a capire perchè.
La combinazione tra reparti non addestrati ed impreparati alla guerra in montagna, dotati di solo armamento individuale, con una logistica praticamente inesistente e senza artiglierie condurrà al massacro interi plotoni, investiti dal fuoco nemico e dall’assalto degli agguerriti schuetzen austriaci. Il crollo dei finanzieri porta all’evacuazione da parte degli alpini delle due quote più elevate del Pal Piccolo. La presenza italiana sulla montagna viene però salvata dal sacrificio del maggiore Giovanni Macchi e dei finanzieri della sua 63^ Compagnia, che cadono nel disperato tentativo di rallentare l’avanzata austriaca, permettendo l’arrivo sulla linea del fronte dei reparti di riserva, i quali riescono a bloccare il nemico prima del precipitare della situazione.
Nei giorni successivi il Regio Esercito riuscirà a riprendere parzialmente le proprie posizioni, ma la quota 1866, la principale del Pal Piccolo, rimarrà in mani austriache sino al 1917, nonostante i ripetuti e sanguinosi tentativi italiani di riconquistarla.
E’ l’inizio della guerra sul Pal Piccolo. Italiani ed austriaci scavano trincee e caverne artificiali nella roccia viva della montagna e formano muretti di protezione con pietre e massi mentre nel frattempo continuano a cercare di uccidersi, tanto che già nelle prime settimane di guerra il diario storico del 7° Corpo d’Armata austriaca rivela che sulla catena formata dai monti Pal Piccolo, Freikofel e Pal Grande il fuoco italiano è tale che gli austriaci perdono tra morti e feriti dai 60 agli 80 uomini al giorno. Ma gli stessi italiani sono costretti durante il giorno a limitare i movimenti nelle proprie posizioni, per evitare il tiro dei cecchini nemici.
Quando Giuseppe arriva al Pal Piccolo assume il comando di una sezione di mitragliatrici del proprio reggimento nel settore della cosiddetta Vetta Chapot, una quota minore del Pal Piccolo, ma essenziale per coprire il versante occidentale del sottostante Passo di Monte Croce Carnico, il principale valico tra Carnia e Carinzia. La quota è stata chiamata così in onore di un giovanissimo sottotenente degli alpini lì ucciso nel gennaio del 1916, mentre Giuseppe sta ancora frequentando la Scuola mitraglieri e da allora è stato uno degli obiettivi principali del nemico.
Sulla Vetta Chapot gli italiani sono riusciti a creare un vero e proprio villaggio militare, creando delle caverne artificiali scavate nella montagna e delle casermette e, pochi metri più sopra, hanno ricavato trincee scavate nella roccia, protette da blindatura e dalla quale puntano le loro mitragliatrici verso le posizioni dell’esercito austro ungarico, che non si stancano mai di martellare gli italiani, i quali sono ormai una spina nel fianco nemico.
Non siamo certi del periodo esatto dell’arrivo dell’aspirante ufficiale Giuseppe Cuffaro sul Pal Piccolo, ma con ogni probabilità giunge nel proprio settore poco dopo l’attacco austriaco del 26 marzo 1916.
Inizia tutto intorno alle due del mattino. Fa un freddo terribile e, nonostante la primavera sia già iniziata, la neve è ancora molto alta e di questo approfittano gli austriaci per avvicinarsi di nascosto durante le prime ore del mattino alle posizioni italiane sul Pal Piccolo e sul Pal Grande. Le sentinelle italiane riescono però ad accorgersene ed a lanciare l’allarme.
Sul Pal Grande il contrattacco italiano respinge l’attacco, ma sul Pal Piccolo il combattimento si fa più feroce. Gli austriaci riescono a prendere la Quota 1859, la seconda più elevata del Pal Piccolo ,quindi il cosiddetto “Trincerone”, la linea italiana più avanzata sulla montagna e ad assediare un’intera compagnia di alpini nei loro ricoveri.
Alpini, fanti, bersaglieri e finanzieri contrattaccano, ma per muovere all’assalto sono costretti a scavare dei camminamenti nella neve profonda anche tre metri, per disputare e riconquistare poi le posizioni perdute battendosi corpo a corpo per esse.
La riconquista viene celebrata in tutta Italia come una grande vittoria, anche se è costata ai nostri soldati circa 700 uomini, tra morti, feriti e dispersi. La “Domenica del Corriere” del 16 aprile 1916 mostra una bellissima tavola di Achille Beltrame rappresentante l’assalto finale dei soldati italiani alla quota 1859 del Pal Piccolo.
Alpini, fanti e bersaglieri attaccano arrancando nella neve, alta fino alle loro ginocchia. L’artista li rappresenta affaticati ma fieri, mentre si slanciano verso la vittoria.
Davanti a loro un colonnello degli alpini, forse il tenente colonnello Poggi, comandante del settore, lancia in aria il proprio cappello dalla penna bianca, come un segnale, mentre un aereo italiano appare nel cielo.
Anche uno dei più famosi giornalisti italiani del tempo, Luigi Barzini, dedica un articolo sul Corriere della Sera alla battaglia per il Pal Piccolo.
Il meno che si può dire è che è scritto splendidamente, ma è ugualmente a dir poco imbarazzante:
“Ad un certo momento, l’impossibilità di trattenere l’assalto ha depresso i difensori […] i nostri hanno sentito subito che era la fine, che avevano vinto. E il loro ardore è divenuto esultanza. Era la reazione violenta di tante lunghe, inenarrabili sofferenze. Era la felicità dopo la dura pena. In quell’istante un aeroplano è apparso in alto. Era nostro. Scendeva a grandi giri sopra la battaglia. Aleggiava sulle vette come l’aquila disegnata nel proclama austriaco ai cacciatori della Carinzia. Scendeva sempre. Non era a più di trecento metri sulla cresta del Pal Piccolo. […]. Le larghe ali tricolori davano all’aeroplano l’apparenza di una grande bandiera italiana prodigiosamente distesa nel cielo. In quel momento l’apparizione aveva del simbolo, del presagio, del miracolo. Un colonnello degli alpini ha gettato in aria il cappello dalla piuma bianca: avanti! alla baionetta! Le truppe salivano l’ultimo gradino con l’impeto di un’onda, urlando di gioia frenetica. Ridevano combattendo ancora, scivolando, cadendo, morendo”.
Imbarazzante, appunto.
Il risultato di fondo della battaglia va al di là del risultato tattico. Ancora durante i combattimenti la popolazione della valle di But vuole fare qualcosa per i soldati, per quei ragazzi che si stanno battendo sulle loro montagne, molti dei quali sono originari della loro stessa valle. E’ al termine della Santa Messa di quella domenica 26 marzo che don Floriano Dorotea, parroco di Cleulis, una delle frazioni di Paluzza, dopo avere parlato con un ufficiale, informa i fedeli di quanto sta accadendo e li invita a portare munizioni in prima linea e alle batterie di artiglieria. Per due giorni e due notti gli abitanti di Cleulis e di Timau, guidati dallo stesso don Floriano, percorreranno mulattiere e sentieri innevati, portando i rifornimenti ai soldati impegnati in battaglia, sfidando il fuoco nemico che investe le retrovie. E’ uno dei grandi episodi dell’epopea delle portatrici carniche, che tra il 1915 ed il 1917 segneranno la storia del fronte.
Inizia tutto nel giugno 1915, quando il Regio Esercito decide di creare un corpo ausiliario di portatori e portatrici, reclutato principalmente in Carnia ma anche nel vicino Canale del Ferro e in Cadore. Con tutti gli uomini validi richiamati nell’esercito, a casa sono rimaste vecchi, donne e bambini. E’ naturale quindi che l’esercito pensi alle donne per assicurare i rifornimenti alle truppe attestate in settori quasi irraggiungibili anche dai muli. Vengono reclutate oltre un migliaio di donne, dai 12 ai 60 anni, le quali si rivelano una grande forza di supporto per i nostri militari. Pur non essendo militarizzate, possono essere considerate le prime donne soldato italiane, dato che si impongono spontaneamente un rigido codice di comportamento improntato alla scrupolosa e rigida osservanza del duro impegno assunto affrontando rischi che solo un reparto militare addestrato aveva finora affrontato.
Sono dotate di bracciale rosso sul quale viene stampato il numero del reparto per il quale operano e di un libretto personale di lavoro sul quale vengono segnati viaggi e materiali trasportati. Partono all’alba dai magazzini a valle (anche se in caso di emergenza sono reperibili a qualsiasi ora del giorno e della notte) dai quali ripartono a gruppi di 10-20 portatrici, dirigendosi verso le trincee italiane con le gerle caricate con pesi di 30 o 40 chili, con marce massacranti di ore, affrontando dislivelli fino a 1200 metri di altitudine, con qualsiasi condizione atmosferica, sotto il fuoco delle artiglierie e dei cecchini austriaci.
Le portatrici affrontano il loro servizio indossando gli scarpetz, le calzature di pezze fatte in casa o gli zoccoli di legno, pregando e cantando per vincere le proprie paure, che aumentano via via che si avvicinano al fronte, affondando nella neve sino alle ginocchia. Una volta nelle trincee, scaricano le gerle e ritornano a valle con le gerle piene della biancheria sporca dei soldati che al viaggio successivo verrà restituita pulita e disinfettata dai pidocchi. Una volta a casa dai loro bambini, le portatrici si dedicano alle loro case ed alle stalle, pronte a ripartire all’alba con un nuovo carico per il fronte.
Un gruppo di portatrici viene dislocato presso il Genio Militare, impiegato per il trasporto dei materiali necessari per i lavori al fronte. Le donne trasportano materiali necessari per la costruzione ed il consolidamento di trincee, ricoveri e vie di comunicazione. A volte, sulla via del ritorno, alle portatrici viene chiesto di riportare a valle le barelle con i soldati feriti o caduti in combattimento, questi ultimi sepolti dalle stesse donne nel cimitero di guerra del villaggio di Timau.
Giuseppe certo ammira il coraggio di queste donne di montagna. Ha appreso di quando, nel momento peggiore della battaglia del 26-27 marzo 1916, le portatrici si sono offerte volontarie come serventi dei pezzi di artiglieria del Pal Piccolo. O della morte della portatrice Maria Plozner Mentil, una giovane madre il cui marito sta combattendo sul fronte del Carso.
Tra le portatrici è una leader riconosciuta e rispettata.
Il 15 febbraio 1916 è impegnata nel trasporto di un carico quando viene uccisa da un cecchino austriaco. Ha 32 anni e lascia quattro figli, tra i dieci anni ed i sei mesi di età. La famiglia non riceverà mai la pensione di guerra poiché, nonostante Maria sia morta per l’Italia come un soldato, questo diritto era riservato solo ai militari.
Solo nel 1997 alla memoria di Maria verrà conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare, ricevuta dalla figlia maggiore Dorina ed alle portatrici carniche verrà concessa (ormai troppo spesso postuma) l’onorificenza dell’Ordine dei Cavalieri di Vittorio Veneto.
Ma tutto questo è ancora lontano nel tempo.
La realtà di Giuseppe non va al di là dell’immediata sopravvivenza al fronte e delle notizie che gli permettano di conoscere quello che sta accadendo intorno a lui.
Come la tragedia dei fusilaz.
In Friuli lo Stato non è amato ma tutt’al più rispettato. Fa eccezione il Corpo degli Alpini, per il quale si arriva quasi ad un’autentica venerazione. Ogni famiglia ha almeno un parente che ha prestato servizio nel Corpo e molti contano tra costoro dei Caduti in guerra, la cui morte viene imputata al nemico o ai governanti del momento, ma mai agli Alpini.
Fa eccezione la tragedia dei fucilati di Cercivento, dei fusilaz di Curcuvint, vissuta come una macchia sull’onore delle Penne Nere.
Inizia tutto l’11 giugno 1916, quando sul versante orientale del monte Freikofel, alla destra del Pal Piccolo, un gruppo di una dozzina di alpini del Battaglione “Tolmezzo” guidati da un sergente diserta consegnandosi agli austriaci. È un’umiliazione sconvolgente per il Corpo, che viene riscattata però due settimane dopo quando la compagnia cui appartenevano i traditori si riabilita conquistando le posizioni nelle quali questi erano stati accolti.
Ma il peggio deve ancora arrivare.
La Creta di Collinetta o Cellon è una montagna alta oltre 2200 metri, formata da due cime, che si erge sulla sinistra del Passo di Monte Croce Carnico. Giuseppe può vederla chiaramente dalle proprie posizioni sulla Vetta Chapot e, come tutti i soldati del settore, comprende che chi possiede la Creta di Collinetta controlla oltre al sottostante valico anche le strade ed i sentieri delle valli italo austriache. Il 23 giugno del 1916 gli alpini sono attestati sulla cima occidentale della montagna. Il comando della zona Carnia decide di conquistare anche la vetta orientale, occupata dagli austriaci e ordina l’attacco alla 109^ Compagnia del Battaglione “Monte Arvenis”, formato da alpini friulani, la maggior parte provenienti dalla Carnia. Gli alpini carnici manifestano le loro perplessità al proprio comandante, un capitano del quale per carità di Patria taceremo il nome. Molti di loro sono originari proprio di quelle valli. Nella vita civile sono contadini, malgari, cacciatori, contrabbandieri e conoscono a memoria quei sentieri e quelle montagne. Sanno che il piano d’attacco disposto dal Comando della Zona Carnia li porterà al massacro e propongono al loro capitano una variante, chiedendo rinforzi e l’appoggio dell’artiglieria.
L’ufficiale caparbiamente rifiuta. Chi sono quei montanari ignoranti ed analfabeti, dall’accento pesantissimo e dai cognomi troppo spesso di assonanza germanica che osano contraddire i piani strategici del Comando? Non saranno mica complici dei disertori del Freikofel e degli alpini piemontesi del 3° che hanno tagliato la corda proprio sulla Creta di Collinetta pochi giorni dopo? Il capitano strepita che sono un branco di vigliacchi che non vogliono combattere, ma gli alpini della 109^ rifiutano di obbedire agli ordini. Sono disposti a morire per gli Alpini e per l’Italia, ma non stupidamente e lo dicono in modo chiaro
“Chi dice che non vogliamo andare? Siamo pronti, ma aspettiamo i rinforzi”.
E’ un ammutinamento.
Il capitano ed uno dei suoi tenenti replicano facendo arrestare oltre ottanta alpini della 109^. Gli arrestati vengono giudicati il 29 giugno nella chiesa di Cercivento, un paese carnico nelle retrovie del fronte, trasformata per l’occasione in aula di tribunale.
L’accusa è molto pesante: rivolta armata, che comporta la pena di morte.
Lo stesso giorno gli alpini piemontesi del battaglione Val Pellice strappano la cima orientale della Creta di Collinetta, attaccando lungo il versante proposto dagli ammutinati del “Monte Arvenis” e subendo perdite minime. Ad appoggiarli sono state le batterie di artiglieria italiane attestate sulla vetta Chapot, una delle quali è affidata ad un giovane tenente milanese, ma di lontane ascendenze germaniche, il tenente Riccardo Noel Winderling, citato nei rapporti ufficiali come uno dei principali artefici della vittoria e protette dalle mitragliatrici della 234^ Sezione dell’aspirante Cuffaro, il quale riceve il battesimo del fuoco.
A Cercivento intanto, con le testimonianze del capitano e del tenente la sorte degli ammutinati è segnata, basti pensare che i due ufficiali e gli altri testi a carico (un altro tenente ed un alpino, casualmente non friulano) vengono ascoltati per circa 45 minuti ciascuno. Gli accusati per meno di dieci minuti.
Vengono “scelti” quattro alpini, accusati dal capitano di essere i “caporioni” dell’ammutinamento. Sono il caporalmaggiore Silvio Gaetano Ortis, i caporali Gio.Batta Coradazzi e Basilio Matiz e l’alpino Angelo Massaro, tutti friulani, i primi due originari proprio della zona. La stessa configurazione del reato fatta dall’accusa è stata creata proprio per aprire le porte alla condanna capitale. Senza prove, solo in base a “si dice” ed a interpretazioni personali ed arbitrarie degli ufficiali e dell’accusa, si ipotizza un complotto (addirittura!) per giungere alla rivolta. Il caporale Matiz, che non si trovava nemmeno sulla Creta di Collinetta al momento dell’ammutinamento, viene buttato in mezzo per consolidare la tesi della rivolta.
La sentenza è quella scontata: condanna a morte tramite fucilazione.
I quattro alpini vengono svegliati intorno alle quattro del mattino del 1° luglio 1916 dai carabinieri incaricati di fucilarli. Li trascinano dietro il cimitero di Cercivento.
Quello che accade è terribile e verrà raccontato in tutta la Carnia da chi è riuscito a evitare il posto di blocco dei carabinieri ed ora assiste inorridito dai boschi. Tra loro la mamma e la moglie del caporale Matiz.
Perché esempio o non esempio, anche il tribunale militare non vuole che nessuno assista alla vergogna.
I quattro alpini vengono legati, bendati e fatti sedere su quattro sedie messe in riga. Con le baionette vengono strappati loro gradi e mostrine. Don Luigi Zuliani, parroco di Cercivento, corre verso di loro, gridando ai carabinieri ed agli ufficiali di fermarsi, che ha rivolto alla Regina la richiesta di grazia, di attendere la risposta, per carità di Dio!
Due ufficiali lo bloccano e cercano di portarlo via, quindi lo caricano a forza su una carretta che si allontana in fretta dal cimitero.
Ora la scena è pronta per l’esecuzione.
I carabinieri sparano e tre degli alpini cadono subito, alla prima scarica. Il caporale Matiz è però ancora vivo, sia pure gravemente ferito. La sua morte sarà atroce, se possibile peggiore di quella dei suoi compagni.
Un ufficiale lo rimette a sedere poi ritorna verso il plotone
“FUOCO!”
Seconda scarica.
Ma Basilio Matiz è ancora vivo ed urla in modo che fa rabbrividire chiunque abbia un cuore di uomo. Non rabbrividisce però l’ufficiale che si avvicina al soldato e, torreggiando eroicamente su di lui, lo finisce con tre colpi di pistola dietro l’orecchio.
Sotto gli occhi di sua madre che, nascosta nel bosco, sta assistendo sconvolta all’atroce scena.
La leggenda dei Fusilaz inizia in quel momento.
Secondo una voce mai smentita ufficialmente, la grazia da parte della Regina Elena giunge mentre le salme dei quattro assassinati si trovano ancora nelle chiesa di Cercivento, dove sono benedette da un piangente don Luigi Zuliani.
Il battaglione “Monte Arvenis” viene trasferito sull’altopiano di Asiago e qui il capitano muore il 7 luglio, colpito secondo la versione ufficiale da cecchini austriaci che sono riusciti ad infiltrarsi chissà per quale prodigio dell’arte militare all’interno delle nostre linee.
Peccato che alcuni alpini, a distanza di decenni ricorderanno di avere udito distintamente anche un paio di colpi di moschetto ’91 molto vicini. Il tenente, che aveva corroborato la testimonianza fatale del proprio comandante di compagnia, morirà a sua volta il giorno successivo sul monte Pal Grande, anche lui colpito da alcune pallottole per così dire “misteriose”.
Don Luigi Zuliani, che aveva cercato di impedire l’eccidio, non si riprenderà mai più dallo shock e morirà pochi anni dopo.
Le famiglie dei Fusilaz vennero costrette al silenzio per anni, come se si fossero dovute vergognare dei loro ragazzi. Addirittura ad alcuni familiari venne impedito di arruolarsi nelle forze dell’ordine, perché parenti dei condannati a morte. L’esercito impedì alle famiglie di celebrare le esequie dei loro figli e trasferì i resti a Udine, restituendoli solo nel 1928, a fascismo trionfante, con l’obbligo di seppellirlo senza funzione religiosa e senza il suono delle campane. Quando la cassetta con i resti del caporalmaggiore Ortis venne riportata a casa, il parroco di Paluzza, il paese di origine del giovane assassinato, rispose con calma che ordini o non ordini, avrebbe celebrato lo stesso la cerimonia, quindi suonò le campane a morto richiamando in chiesa gli abitanti e celebrò la Messa.
Le famiglie dei Fusilaz non si arresero. Negli anni ’90 Mario Flora, il pronipote del caporalmaggiore Ortis, cerca di ottenere la riabilitazione militare per il suo prozio e per i suoi compagni. La risposta èà negativa, anche perché, come la Presidenza della Repubblica ed il Tribunale Militare di Sorveglianza ha la bontà di comunicare al signor Flora “l’istanza di riabilitazione deve essere proposta dall’interessato” .
Fantastico.
Mario Flora non demorde e nel 1998 grazie alla sua richiesta a Cercivento verrà inaugurato un cippo dedicato alla memoria dei quattro alpini assassinati. All’inaugurazione presenziano anche gli alpini di Cercivento, provocando una spaccatura con l’ANA sulla quale preferiamo non pronunciarci, proprio per il rispetto che proviamo per il Corpo.
E proprio per quel rispetto che proviamo, nella prossima ed ultima parte lasceremo le polemiche dell’età moderna e ritorneremo al fronte, da quei ragazzi in grigioverde che apprendono inorriditi dell’eccidio di Cercivento mentre attendono il prossimo assalto dell’esercito austroungarico, dalle loro famiglie, che aspettano trepidanti il loro ritorno a casa.
Dall’aspirante ufficiale Giuseppe Cuffaro, che ora, sulla Vetta Chapot, attende di conoscere il suo destino e quello del suo Paese.
Fine seconda parte
Fonti principali ed opere consultate:
“Guerra sulle Alpi Carniche e Giulie” di Adriano Gransinigh, Tolmezzo 2015
“Un anno di guerra a Pal Piccolo” di Guido Poggi, Tolmezzo 2009
“La fucilazione dell’alpino Ortis” di Maria Rosa Calderoni, Milano 1999
“Sui campi di battaglia – il Cadore, la Carnia e l’alto Isonzo” AAVV, Milano 1937
Domenica del Corriere, collezioni 1915 e 1916
Buona sera.
A proposito di Maria Plozner Mentil, voglio ricordare che a Sabaudia, la mia città, sorta in seguito alla bonifica alla quale parteciparono molti coloni friulani, reduci della grande guerra, le è stato intitolato un giardino pubblico dove è stata collocata anche una stele commemorativa.