L’URLO DELLA GUERRA ( il delegato di PS Giuseppe Cuffaro, I^ Parte. 1915-1916)
L’URLO DELLA GUERRA
( il delegato di PS Giuseppe Cuffaro, I^ Parte. 1915-1916)
Questa storia comincia con un urlo.
Quello di un ragazzo di 22 anni orribilmente ferito sul campo di battaglia.
I portaferiti lo hanno raccolto sulle pietraie di Castelnuovo del Carso, dove è stato colpito mentre muoveva all’assalto delle linee austroungariche durante la Prima Battaglia dell’Isonzo.
I due lettighieri lo hanno trasportato trafelati nella prima linea italiana, risalendo in senso contrario l’onda umana dei soldati italiani continuano a lanciarsi contro le posizioni austriache e sfuggendo al fuoco delle mitragliatrici nemiche. Una volta raggiunta la prima linea italiana i portaferiti hanno affidato il ragazzo ferito ed urlante ad un giovane ufficiale medico già oberato di lavoro il quale non ha potuto fare altro che prestargli sommariamente le prime cure ed affidarlo al camion Fiat 18BL della Sanità Militare che fa la spola tra il fronte e l’ospedale militare.
Il caporalmaggiore Corrado Cuffaro, 32° Reggimento della Brigata di Fanteria “Siena”, viene ricoverato ed operato all’ospedale da campo di Turriaco, oggi un paesino nei pressi di Gorizia.
Qui morirà pochi giorni dopo in seguito alle ferite subite.
E’ il 28 Giugno 1915 e l’Italia è in guerra da 34 giorni contro l’Austria- Ungheria.
I genitori di Corrado verranno a sapere della sua morte poco più di due settimane dopo, il 14 luglio.
Il sindaco di Raffadali Alfredo Dibenedetto si asciuga il sudore con un fazzoletto di seta, mentre attende che qualcuno venga ad aprirgli la porta di casa Cuffaro, alla quale ha appena bussato.
E’ andato personalmente a casa di Libertino e Giovanna, che conosce da sempre, invece di mandare il messo comunale ed il parroco, come aveva pensato per un istante, per non dover dire a due brave persone che il loro figliolo non tornerà più a casa.
Rumore di passi che si dirigono verso la porta.
Chiavistelli.
Ad aprire l’uscio è Libertino.
Un attimo di sorpresa e poi il sorriso del padrone di casa “Oh, signor sindaco! – esclama- che piacere! Come…”
Un grande lavoratore che si spacca la schiena per mandare i figli a scuola, un uomo sempre sorridente e allegro, pensa Alfonso Dibenedetto. Ma ora l’allegria è una maschera ed il sorriso è venato di tristezza e preoccupazione per il loro ragazzo, Corrado.
Corrado, la cui foto in uniforme è alla parete della sala, sotto due bandierine tricolori incrociate e mentre la Madonna di Girgenti guarda benevola il giovane soldato da un ritratto accanto.
Dalla soglia Alfredo Dibenedetto ha una visione della sala, dove i Cuffaro stanno pranzando. Giovanna, la moglie di Libertino, sta servendo il cibo nel piatto ai figli più piccoli.
“Signor sindaco! – dice Giovanna con un sorriso allegro– che piacere! Volete accomodarvi a pranzare con noi? …” poi si interrompe, guardando il volto cereo del sindaco e capisce che l’incubo che sta vivendo dal 24 maggio è diventato realtà.
“Oh, Madonna mia, no…. Corrado – mormora piano, incredula ed insieme consapevole, mentre i figli seduti a tavola guardano incerti e smarriti ora i genitori, ora l’intruso esitante sulla soglia. Poi quel sussurro diventa un urlo disperato, un’invocazione angosciata a chi non tornerà – CORRADO!”
Primavera 1916
Ogni giorno centinaia di tradotte militari percorrono le linee ferroviarie italiane.
Uomini, animali, armi, rifornimenti che si muovono sulle strade ferrate della Penisola, ormai simili al delta di un fiume immenso che sfocia nell’enorme mare magnum del fronte.
Gli uomini a bordo dei vagoni ferroviari sono soldati di tutte le Armi del Regio Esercito e di tutte le età. Militari di carriera, richiamati alle armi, di leva e volontari. Fanti, bersaglieri, alpini, granatieri e tutti gli appartenenti ai vari corpi del Regio Esercito, centinaia di migliaia di uomini in grigioverde, l’Italia intera, volente o nolente, viaggia sugli scomodi vagoni di terza classe diretti verso il fronte, verso la prima guerra moderna, verso il moloch che sta annientando un’intera generazione.
Tra di loro l’aspirante ufficiale di fanteria Giuseppe Cuffaro, 26 anni, da Raffadali in provincia di Girgenti. E’ il fratello maggiore del caporale Corrado, ferito a morte a Castelnuovo del Carso durante il primo mese di guerra, quando migliaia di soldati italiani sono caduti nell’iniziale, inutile e sanguinoso tentativo di prendere Trieste.
Quando Giuseppe ha appreso della morte del fratello si trovava nel proprio ufficio al primo piano della Regia Questura di Milano, intento al proprio lavoro o meglio, al proprio servizio.
Perché Giuseppe è un poliziotto, un delegato di pubblica sicurezza in servizio da meno di un anno presso la Questura di Milano.
Nell’antica sede della Regia Questura di Milano di piazza San Fedele, distrutta dai bombardamenti nel 1943, poco prima dell’anticamera del questore, c’era un piccolo museo della Polizia, costruito in perfetto stile della divulgazione del primo Novecento e disposto su due stanze: nella prima, con documenti ed oggetti, veniva rappresentata la normale attività di polizia, con in mostra le armi ed i corpi di reato sequestrati , fotografie di criminali condannati o ricercati, impronte digitali mentre nella seconda una piccola biblioteca con testi giuridici ed i primi libri “gialli”. Alle pareti alcune vignette umoristiche e, al posto d’onore, tre quadretti rappresentanti lo scrittore Edgar Allan Poe che si aggira nelle vie di una città durante una tempesta, nel secondo Sherlock Holmes ritratto mentre, seduto su un divano medita su un caso, con accanto la pipa d’ordinanza ed il violino; nel terzo il mitologico Teseo, mentre riceve da Arianna il filo che gli permetterà di districarsi nel labirinto. Certo il delegato Cuffaro dottor Giuseppe, mentre attendeva di presentarsi al questore si sarà soffermato ad ammirare i trofei e i tre quadretti, omaggio da parte della Polizia all’arte, alla fantasia ed al mito, “alla fiaccola che guida l’intelligenza umana nei meandri dell’oscurità misteriosa” come scrisse qualche anno dopo nelle proprie memorie Giovanni Rizzo, un altro funzionario di poco più anziano di lui.
Chissà se Giuseppe si sarà riconosciuto in quella metafora del lavoro di Polizia, da una parte la scienza e dall’altra la “fiaccola” dell’intelletto umano e chissà che avrà pensato dell’oscurità umana in cui sta per immergersi.
Giuseppe ha frequentato il corso presso la Scuola Tecnica di Polizia di Roma, seguendo le lezioni di docenti di primo piano, come il professor Salvatore Ottolenghi, il padre della medicina legale in Italia e di innovatori come il commissario Giovanni Gasti, il delegato Umberto Ellero ed altri, poliziotti, magistrati e insegnanti universitari che lavorano con entusiasmo alla “costruzione” dei nuovi poliziotti.
Il futuro delegato Giuseppe Cuffaro si è gettato con altrettanto entusiasmo nello studio.
Quando il corso termina, Giuseppe viene assegnato alla Regia Questura di Milano.
Negli anni precedenti alla Grande Guerra il capoluogo lombardo è forse la città politicamente più vulcanica del Regno. Qui sono nate la grande industria italiana e il socialismo, il movimento libertario anarchico è fortissimo e, nello stesso 1914 che vede l’arrivo di Giuseppe Cuffaro a Milano, vi nasce anche l’interventismo, il movimento che chiede, anzi esige, l’ingresso dell’Italia in guerra al fianco di Francia e Gran Bretagna, contro Germania ed Austria.
Perché il 1914 è l’anno di svolta della storia europea: il 28 giugno a Sarajevo un irredentista serbo uccide l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria innescando gli eventi che in poche settimane porteranno gli Stati europei alla guerra.
Ma tutto ciò è ancora lontano dall’Italia e al di là degli immediati pensieri del delegato Cuffaro, il quale si immerge nel lavoro, legandosi alla pattuglia di giovani funzionari che, come in tutte le Questure del Regno, con il loro impegno e la loro dedizione stanno cercando di cambiare la Polizia.
A Milano il loro punto di riferimento è un altro funzionario siciliano poco più anziano di Giuseppe, il messinese Giovanni Rizzo.
Sfuggito al terremoto del 1908 che gli ha ucciso la madre, il delegato Rizzo è l’astro nascente della Polizia italiana. Infaticabile, instancabile, dotato di un fiuto da segugio, è diventato il terrore della “ligéra”, la malavita milanese.
Da pochi elementi, o addirittura da un solo indizio, riesce a dipanare matasse all’apparenza inestricabili ed a arrestare i responsabili.
Ladri, rapinatori e assassini cadono nella rete delle sue indagini. Come quella sul caso delle due prostitute strangolate da un folle. Rizzo, partendo da una labile testimonianza che parla di un non meglio precisato oste di Corso Sempione come possibile sospetto, insieme ai suoi agenti percorre a piedi nella notte il lunghissimo viale, controllando ogni esercizio pubblico sino a che non raggiunge l’indirizzo giusto e arresta l’assassino, un bravo padre di famiglia che confessa quasi candidamente “della propria esaltazione, dell’invincibile bisogno di uccidere, di strangolare” (Giovanni Rizzo “I segreti della Polizia”, pag. 111-119). Nelle sue memorie Rizzo lo definirà “l’orco”. Oggi verrebbe chiamato “serial killer”.
Sicuramente il delegato Cuffaro non ha partecipato all’indagine, ma non è un volo di fantasia immaginare che i due funzionari ne abbiano discusso insieme nella trattoria di via Frattina che è diventata il “covo” dei giovani poliziotti milanesi e la fucina di nuove idee e dibattiti.
Poi tutto cambia con l’ingresso dell’Italia in guerra.
Shock. Dolore. Questi saranno stati i primi sentimenti di Giuseppe alla notizia della morte del fratello. E’ naturale, ognuno di noi, al suo posto, avrebbe provato le stesse laceranti emozioni.
Ma in seguito?
Sappiamo che nel dicembre del 1915 Giuseppe Cuffaro si presenta presso il distretto militare, venendo immediatamente arruolato.
Perché lo fa? La risposta ovvia sarebbe: per onorare il sacrificio del fratello.
Ma c’è di sicuro qualcosa di più profondo che entra nella psicologia non solo di Giuseppe Cuffaro, ma di tanti giovani di allora. Quella di Giuseppe è la generazione cresciuta nel mito del colonnello de Cristoforis che nella battaglia di Dogali del 1887 prima di soccombere di fronte ai guerrieri abissini ordina ai propri soldati con i fucili ormai scarichi “Presentate le armi ai vostri compagni caduti!”, per venire poi falciato dai mille colpi del nemico. Erano i giovani cresciuti commuovendosi per le descrizioni del martirio degli Eroi risorgimentali e per i racconti patriottici del libro “Cuore”, erano gli Uomini e le Donne per i quali le parole “civiltà, patria ed onore comparivano in ogni lettera a casa, ed erano scritte forse con ingenua retorica ma anche con una verità che ognuno si studiava, a costo della vita, di mantenere intatta e splendente” (da Franco Bandini, “gli Italiani in Africa”, Mondadori )
Giuseppe Cuffaro poteva evitare l’arruolamento e combattere ugualmente al servizio della Patria? Certamente.
Nel corso della Grande Guerra la Polizia viene mobilitata per la lotta a spie e sabotatori ed è impiegata duramente per la lotta al brigantaggio ed all’abigeato nel Sud, specialmente in Sicilia, dove la connivenza tra disertori (non sempre ragazzi terrorizzati dalla guerra) banditismo, mafia e “colletti bianchi” ha creato un vero e proprio “fronte interno”, una guerra ignota al resto del Paese e che viene efficacemente descritta da Giulio Quintavalli nel suo libro “Da sbirro ad investigatore” (Udine 2017) ed alla cui lettura si rimanda per ulteriori approfondimenti.
Lo stesso Giovanni Rizzo entra a far parte dell’Ufficio Speciale Investigativo, il controspionaggio interno italiano, continuando la sua folgorante carriera, dedicandosi alla caccia di spie e sabotatori.
Non è difficile immaginare che lo stesso Rizzo abbia proposto al collega Cuffaro di entrarne a far parte.
L’USI combatte per l’Italia esattamente come il soldato, anzi, per usare le parole del ministro Vittorio Emanuele Orlando per “salvaguardare le spalle dell’Esercito”.
Un compito essenziale quindi, gli avrà senz’altro detto Rizzo.
Cuffaro però non sceglie l’USI. Oltre al desiderio di ripercorrere le orme del fratello Corrado, alla volontà di combattere per l’Italia, tipica di migliaia di volontari di ogni età e stato sociale, c’è l’esempio di numerosi altri funzionari di polizia che si “lanciano” in aspettativa per servire la Patria nelle trincee.
Come il vicecommissario Guido Alessi, suo coetaneo.
Romano, anch’egli in servizio presso la Regia Questura di Milano, Alessi ha ingaggiato e vinto la sua personale guerra con il Ministero dell’Interno per poter vestire il grigioverde nella Brigata di Fanteria “Bologna”.
Chi, come noi, è uso a consultare documenti in archivi polverosi ed a incrociare dati ed eventi, non crede alle coincidenze.
Non può essere tale, ad esempio, la presenza contemporanea nello stesso ristretto luogo di due giovani colleghi, forse due amici, uno dei quali ha già compiuto la propria scelta e l’altro, certo tormentato, che sta per compierla. Non è difficile quindi immaginare un incontro tra di loro, una discussione serrata che parte da una semplice, ma sofferta e profonda “Che cosa posso fare per la Patria?”
Se è così, è facile supporre che l’esempio del collega abbia fatto prendere la decisione definitiva a Giuseppe.
Il delegato Giuseppe Cuffaro si pone anche lui in aspettativa e si presenta al distretto militare come volontario.
Viene arruolato a dicembre, quindi l’aspirante ufficiale Giuseppe Cuffaro frequenta un veloce corso di formazione per ufficiali di complemento, dopodiché frequenta il corso per mitraglieri al termine del quale viene assegnato al fronte, prima ancora di avere ricevuto la nomina a sottotenente, perché il mostruoso moloch della guerra sta sbranando migliaia di giovani ufficiali e il Regio Esercito è costretto a ridurre la durata dei corsi per poter tamponare le falle.
Prima assegnazione: brigata di fanteria “Como”, al momento schierata sul fronte del Cadore ma prima ancora di raggiungerla, l’aspirante ufficiale Cuffaro dottor Giuseppe viene assegnato alla 234^ Sezione mitragliatrici, di stanza sul monte Pal Piccolo, in Carnia.
In quello stesso tardo inverno del 1916 altri due giovani aspiranti ufficiali terminano il corso per mitraglieri. Sono due alpini, anche loro volontari, il pugliese Alberto Urbano e il carnico Antonio Missoni, destinati al Battaglione Gemona, schierato sulle Alpi Giulie .
Ci piace pensare che i tre giovani abbiano fatto amicizia tra loro ed abbiano viaggiato insieme sulla stessa tradotta militare che li ha portati verso est, parlando insieme delle proprie paure e delle proprie motivazioni, delle speranze per il futuro ma anche della vita di “prima”.
I tre giovani ufficiali si sono arruolati perché fin dall’infanzia hanno creduto nel loro Paese, nel desiderio di fare qualcosa per esso, nel destino della propria generazione di portare a compimento l’Unità nazionale. Queste motivazioni faranno inarcare a più di qualcuno il moderno e disincantato sopracciglio e susciteranno ad altrettanti un risolino sprezzante, ma un secolo fa quelle motivazioni erano più importanti della vita stessa.
Il loro convoglio raggiunge Udine, il centro nevralgico del fronte, dal quale si diramano rifornimenti e rincalzi per il fronte. La Stazione di Udine in quei giorni brulica di uomini, mezzi e animali diretti verso i vari settori. E di feriti, tanti, troppi feriti su quei vagoni ferroviari dipinti di bianco diretti verso ovest, verso gli ospedali militari del resto d’Italia.
Del resto quelli sono i caotici giorni successivi alla Quinta Battaglia dell’Isonzo, nel corso della quale il Regio Esercito ha perso circa duemila uomini in un’operazione che nelle intenzioni avrebbe dovuto distogliere l’attenzione del nemico dal fronte francese. Il tutto si risolve nel consueto, terrificante bagno di sangue.
I tre giovani ufficiali lasciano Udine, forse con un altro convoglio diretto verso le Alpi. Giuseppe scende qualche ora dopo alla Stazione di Carnia, il principale snodo ferroviario del Friuli Settentrionale. Qui Giuseppe ed i suoi amici si salutano, promettendo di incontrarsi alla prima licenza a Tolmezzo oppure a Udine poi il treno li separa. Non ci riusciranno mai. Alberto e Antonio cadranno in battaglia il 19 luglio 1916, su una cima delle Alpi Giulie durante un eroico ed inutile tentativo di sfondamento delle linee nemiche.
L’aspirante Giuseppe Cuffaro prosegue verso nord con un altro convoglio militare che risale le valli, fino al confine, fino alle Alpi Carniche.
Fino al Pal Piccolo, la vetta che segnerà il suo destino.
Fonti principali ed opere consultate:
“Da sbirro ad investigatore” di Giulio Quintavalli, Aviani e Aviani, Udine 2017
“I segreti della Polizia” di Giovanni Rizzo, Rizzoli Editore, Milano 1953
Atto di morte del caporalmaggiore Corrado Cuffaro, disponibile su http://www.14-18.it/documento-manoscritto/mcrr_caduti_73_59/5?search=37a6259cc0c1dae299a7866489dff0bd&searchPos=1