L’URLO DELLA GUERRA (III^ Parte- il sottotenente Giuseppe Cuffaro/ Giugno- Novembre 1916)
L’URLO DELLA GUERRA
(III^ parte – il sottotenente Giuseppe Cuffaro, estate-autunno 1916)
“Mamma carissima, pochi minuti prima di andare all’assalto ti invio il mio pensiero affettuosissimo. Un fuoco infernale di artiglierie e di bombarde sconvolge nel momento in cui ti scrivo tutto il terreno intorno a noi. E’ terribile, sembra che tutto debba essere inghiottito da un’immensa fornace. Eppure con il tuo aiuto, con l’aiuto di Dio da te fervidamente pregato, il mio animo è sereno.
Farò il mio dovere sino all’ultimo”
Ultima lettera di un soldato alla madre (da “Le brigate di fanteria “marchigiane” ” di Massimo Coltrinari, Roma 2015).
Estate 1916
La conquista della Creta di Collinetta non mette fine alla guerra sui monti intorno al Passo di Monte Croce Carnico. Gli italiani dominano dall’alto le posizioni nemiche, tanto che gli austriaci attestati sulla dorsale orientale della Creta di Collinetta (chiamata in tedesco Schulterstellung) sono sottoposti a violenti e continui attacchi da parte degli alpini del 3°Reggimento e durissimi bombardamenti di artiglieria che devastano la zona, rendendo difficili le comunicazioni tra le retrovie e lo Schulterstellung, dove i genieri austriaci stanno rafforzando le difese sotto il fuoco nemico.
Le artiglierie italiane, insediate sul Pal Piccolo e più indietro, sulle montagne dell’alta valle del But, scaraventano un uragano di fuoco sulle linee austriache. Giuseppe Cuffaro si calca sulla testa l’elmetto Adrian e si appiattisce a terra, nella propria postazione, quando sente i proiettili di artiglieria fischiargli sopra la testa prima di esplodere sei o settecento metri più in basso, sullo Schulterstellung, dove i genieri austroungarici lavorano senza posa per riparare i danni causati dalle bombe italiane. Le esplosioni sono devastanti, terribili. Fanno tremare le montagne, crollare massi e rocce e sollevano spaventose, enormi, nuvole di polvere e di pietre che si abbattono anche sulle trincee italiane del Pal Piccolo. Quando il bombardamento cessa, Giuseppe può sentire le urla dei soldati nemici feriti o sotto shock, provenienti da centinaia di metri più a valle, ma dalle feritoie della propria postazione avanzata può vedere gli altri austriaci uscire dai ricoveri e correre nuovamente a riparare i danni e riprendere il proprio posto nelle trincee, in attesa dell’assalto italiano. Ed è a quel punto che tocca ai mitraglieri della 234^ e delle altre sezioni del Pal Piccolo coprire le unità del Regio Esercito che al grido “SAVOIA!” attaccano le trincee austroungariche. Dal Pal Piccolo Giuseppe può vedere fanti ed alpini attraversare la terra di nessuno, correre tra i reticolati, arrampicarsi sulle rocce ed i massi e raggiungere le trincee correndo a perdifiato.
Come il 4 agosto, quando gli alpini del Battaglione Val Pellice attaccano, approfittando della nebbia che sta coprendo la Creta di Collinetta. I soldati italiani riescono ad impadronirsi della parte più alta della dorsale dello Schulterstellung e a penetrare nelle trincee nemiche ed a infiltrarsi in profondità in un altro settore, riuscendo a catturare numerosi prigionieri ed a occupare parte di un caposaldo austriaco vicino al Passo. Il successo viene vanificato dall’arrivo di due compagnie di schuetzen austriaci di rinforzo ai difensori dello Schulterstellung e soprattutto dalle artiglierie nemiche, che iniziano un feroce bombardamento sulle nostre posizioni della Creta di Collinetta, del Passo di Monte Croce Carnico e del Pal Piccolo costringendo gli alpini a ritirarsi. Sullo Schulterstellung gli italiani vengono respinti dagli schuetzen che attaccano alla baionetta, mentre più all’interno gli alpini riescono a sganciarsi più facilmente. I mitraglieri e gli artiglieri coprono la ritirata degli italiani, anche quando i cannoni austriaci iniziano a colpire dannatamente vicino, anche quando le mitragliatrici Skoda appostate sopra alla Vetta Chapot investono rabbiosamente le trincee italiane, ferendo, mutilando ed uccidendo chi tra i mitraglieri è così imprudente, terrorizzato o sfortunato da finire sotto tiro. Poi lo scontro finisce gradualmente, con le raffiche e le esplosioni che cominciano a scemare piano, sino a che sul Pal Piccolo rimane il silenzio, un lungo irreale ed incredibile istante di silenzio assoluto che viene subito interrotto dalle grida dei feriti.
Giuseppe appoggia esausto la schiena alla parete in calcestruzzo della trincea blindata e chiude gli occhi, cercando di non pensare a nulla.
E’ la guerra di trincea, sporca, crudele e spietata. Un’esplosione di violenza che sconvolge le vite di milioni di soldati in tutta Europa, dal Mar Baltico al fiume Somme, dal Belgio alle Alpi.
Niente è come prima. Nessuno può essere più come prima.
Di certo non può esserlo il sottotenente Giuseppe Cuffaro, che da mesi combatte sul fronte di pietra della Carnia.
Giuseppe è stato nominato sottotenente nei giorni della conquista della Creta di Collinetta da parte del Val Pellice. Nella seconda metà del 1916 il massacro dei giovani tenenti al fronte ha assunto proporzioni sconvolgenti e le promozioni al grado superiore procedono di conseguenza. Le scuole militari di Modena, Torino, Caserta e Parma sfornano 150.000 ufficiali di complemento nel corso di tutto il conflitto, dopo corsi di appena tre mesi o addirittura più brevi, tanto che l’esercito si vede costretto a far giurare al fronte come sottotenenti dei giovani aspiranti ufficiali in servizio da oltre un mese al fronte.
Gli ufficiali di complemento venuti dalla vita civile sono per la maggior parte interventisti e volontari, come lo stesso Giuseppe Cuffaro, che si sono gettati nella guerra per ideali e patriottismo e che si sono scontrati con la realtà del conflitto, fatta di fame, freddo e morte. Anche se gli entusiasmi si sono affievoliti quei giovani ufficiali, almeno nella maggior parte dei casi, sanno parlare alla truppa molto più di quelli di carriera, troppo spesso rinchiusi nei loro formalismi e nel rispetto delle dure circolari del generale Cadorna, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Quei sottotenenti ed aspiranti ufficiali, molti dei quali studenti universitari, a guidare i soldati contadini della Grande Guerra, per la maggior parte ostili al conflitto, verso il quale non provano alcun idealismo e spinta patriottica ma saranno quegli studenti e quei contadini a portarci alla vittoria finale.
Ma questa è un’altra storia ed in quel momento è lontana nel tempo.
Ora siamo ancora sul Pal Piccolo, dove il sottotenente Giuseppe Cuffaro, dopo essersi riscosso dallo shock successivo alla fine della battaglia, inizia a dare ordini ai propri serventi, fa riportare a valle i morti ed i feriti, riparare la postazione, reintegrare le munizioni e litiga con il sottufficiale delle cucine perché il rancio venga subito distribuito ai soldati impegnati in trincea ed infine il rapporto al proprio comandante di compagnia, al termine del quale si rinchiude nel proprio alloggio, dove scrive a casa per comunicare di essere vivo, di poter vedere un altro giorno.
Nel frattempo, dal Passo di Monte Croce Carnico, si sente provenire il canto dei soldati austriaci, dedicato ai loro fratelli Caduti. E’ un canto triste e bellissimo, forse una delle più belle canzoni militari di tutti i tempi
“Ich hatt’einen Kameraden/Einen bessern findst du nicht…”
“Avevo un camerata/ di migliori non ce n’erano/il tamburo ci chiamò alla battaglia/lui camminava al mio fianco/ saldo stava accanto a me/un proiettile iniziò a fischiare/ è per te o per me?/ è caduto a terra ai miei piedi/ come fosse una parte di me…”
Chi è il sottotenente Giuseppe Cuffaro a più di sei mesi dall’arruolamento? Certo un patriota, d’accordo. Sicuramente (ed è inevitabile) un soldato e non più un poliziotto.
La guerra lo ha cambiato, non solo con la morte del fratello Corrado, ma soprattutto con la realtà della trincea, fatta di violenza e di coraggio, di solitudine e di morte. Ma l’uomo? Chi è l’uomo che ha lasciato tutto per prendere la strada più difficile. Purtroppo possiamo solo immaginarlo, sulla base del poco che l’Esercito e la Polizia hanno lasciato di lui.
Useremo come confronto i suoi colleghi.
I sottotenenti che si arruolarono come volontari nel 1915 dopo la guerra presero strade del tutto diverse: il capitano Emilio Lussu, interventista , indignato dall’aridità dei vertici militari, dalla follia dei massacri, nel Dopoguerra si sposta su tesi antimilitariste efficacemente descritte nel suo splendido “Un anno sull’altipiano”, forse il più bel libro di guerra (non solo “contro”) scritto in Italia.
All’opposto l’artista Luigi Bartolini che quindici anni dopo la fine della guerra, nel suo “Ritorno sul Carso” esprime il suo disprezzo per gli imboscati (e siamo d’accordo) per la vita borghese (e va bene) ma esprime un concetto che lascia capire come lui dalla trincea non sia mai uscito “Per me, trovo che la guerra era bella e conforme al mio spirito; e stimo grande ventura l’essermici trovato nell’età giusta della vita”.
Forse la verità sta nel mezzo ed è la più semplice: Giuseppe è poliziotto che ha imparato a conoscere e valutare le persone grazie alla sua breve carriera da investigatore. Conosce la psicologia dei suoi soldati, le loro qualità ed i loro sentimenti e nel momento del bisogno fa appello a questi, anche quando è costretto a trattare bruscamente qualche soldato terrorizzato dalla battaglia. Questo ne fa un ufficiale amato e rispettato dai suoi uomini per il suo coraggio e per l’uso parsimonioso che fa delle loro vite e che, proprio per questo, sono pronti a battersi con e per lui.
Come scriverà il poeta e tenente degli Alpini Piero Jahier “Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri/e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita/ma io per far compagnia a questo popolo digiuno/ che non sa perché va a morire/ popolo che muore in guerra perché “mi vuol bene”/ “per me” nei suoi sessanta uomini (…) “.
A volte il sottotenente Cuffaro riesce a guadagnare una breve licenza che vada al di là dell’immediato fondovalle e di Paluzza e delle sue immediate vicinanze. Sicuramente a Tolmezzo, il principale centro della Carnia, ma anche a Udine e a Venezia e, forse, anche a Milano dove avrà festeggiato con amici e colleghi. Ci chiediamo se durante una delle sue licenze avrà incontrato il suo collega Guido Alessi, già vicecommissario di Polizia nella loro vita precedente ed ora tenente di fanteria del 39° Fanteria, schierato nel mattatoio dell’Isonzo . Avranno discusso certo della loro vita al fronte, della loro scelta di servire il Paese in trincea. Ci domandiamo se entrambi si siano fatti delle riserve sulla loro decisione, ma propendiamo per il no.
Se il delegato Giovanni Rizzo, loro amico e collega, ha scelto di servire la Patria cacciando spie e sabotatori, il vicecommissario Guido Alessi, il delegato Giuseppe Cuffaro e decine di altri funzionari di Polizia non si sono riconosciuti in questo. Già nel 1914, quando l’Italia è ancora neutrale, erano state avanzate dall’interno delle proposte per la costituzione di un battaglione di guardie di città destinate a combattere al fronte, proposte che erano state rigettate dal Capo della Polizia, con l’apprezzamento di prammatica e la risposta che la Polizia stessa in caso di guerra avrebbe combattuto sul fronte interno (per ulteriori delucidazioni invitiamo il lettore alla lettura di “Da sbirro ad investigatore” di Giulio Quintavalli, Udine 2017). Ma anche se rigettate, queste proposte lasciano intuire un profondo sentimento patriottico e nazionale all’interno della Polizia di allora, un sentimento che si sentiva compresso dalla scelta interna da parte dei vertici, nella quale molti giovani funzionari non si riconobbero e che li portò a presentarsi presso i distretti militari, spesso scontrandosi con la burocrazia. Alessi, ad esempio, ingaggiò per oltre due anni una guerra con i passacarte che lo rivolevano in Questura, uno scontro vinto solo dopo Caporetto, quando i burocrati accettarono di arrendersi e lasciare il commissario, pardon, il tenente Guido Alessi in grigioverde.
Fu una scelta difficile, forse addirittura tormentata, ma inevitabile per dei giovani come loro, cresciuti nei miti risorgimentali e nella fede nell’Italia. Un’Italia per la quale erano disposti a soffrire ed a morire.
Un’Italia che però li lascia basiti quando, durante le licenze al di là del fronte trovano un Paese indifferente, dove gli imboscati ed i pescecani, cioè i profittatori di guerra, sembrano proliferare. Come scriveranno alcuni reduci, citati da Indro Montanelli nel suo “L’Italia di Giolitti” (Milano, 1974)
“E’ cresciuto il lusso, è aumentata la smania dei divertimenti. Dovunque gente che si affanna a godere e a divertirsi, dando prova di non darsi alcun pensiero per chi conduce una vita di patimenti inenarrabili”
“Ho visto tanti di quei giovani godersela nei teatri e nei caffè che mi veniva voglia di prenderli a pugni e di odiarli più degli austriaci”
Non ci stupirebbe sapere che questa rabbia sia stata provata anche dallo stesso sottotenente Giuseppe Cuffaro. Perdere amici, familiari, soffrire in nome del proprio Paese per scoprire poi che di te il tuo stesso Paese se ne frega, beh…farebbe perdere la calma anche ad un santo e, per quello che conosciamo di lui, Giuseppe è certo un brav’uomo, ma non un santo.
La realtà però è ancora più complessa. Sino alla disfatta di Caporetto l’Italia ignora che cosa sia davvero la guerra, che il governo e l’esercito cercano di occultare, raccontando bugie ad un Paese che paradossalmente non chiede di meglio che ignorare ciò che sta accadendo nel Nord Est e si accontenta delle corrispondenze “addomesticate” e delle bellissime ma non realistiche tavole di Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere. Anzi, Cadorna teme che siano gli stessi soldati in licenza a diffondere il “disfattismo” nel Paese e dirama la sua ennesima circolare che fa cadere le braccia, anche a distanza di un secolo.
Ancora Montanelli (op.cit., pag. 281)
“ “Ho dovuto dolorosamente constatare – diceva il Generalissimo in una sua circolare- che vi sono pusillanimi ed incoscienti i quali, recandosi in licenza, anziché diffondere la fiducia, come vorrebbe il loro onore di soldati e il loro più sacro dovere verso la Patria…” e niente dimostra la sua lontananza dal soldato quanto questo continuo stambureggiare di parole maiuscole – Patria, Dovere, Onore – che nella coscienza del soldato non suscitavano alcuna eco”
Immaginiamo quindi il sottotenente Cuffaro trattenersi con grande fatica dal ribaltare i tavolini contro i giovani borghesi ben vestiti nei caffè di piazza del Duomo o di piazza San Marco o mentre a Udine osserva i suoi colleghi ufficiali di Stato Maggiore, con le uniformi linde e immacolate e coperte di nastrini immeritati, mentre passeggiano per Piazza Umberto I o Via Aquileia e si chiede quanto durerebbero in prima linea, se mai avessero la sventura di finirci.
Del resto, come tutti i veri soldati, Giuseppe divide l’umanità in quattro categorie: i fessi, ovvero chi si batte al fronte, i fissi, che svolgono la loro naja nei comandi lontani dalla trincea, gli italiani, che si tengono bene al riparo nelle retrovie e gli italianissimi che sono rimasti a casa.
Giuseppe è orgoglioso di essere un fesso e se, essendo un ufficiale, non può unirsi al coro dei soldati, ascolta benevolo e divertito una delle loro canzoni “Da Cividale ad Udine/ci stanno gli imboscati/hanno gambali lucidi/capelli profumati…”.
Non avrà mai i gambali lucidi, sorride quando ritorna sul Pal Piccolo, dai suoi uomini, dai suoi amici, dai suoi fratelli. Perché ha perso Corrado, ma ha trovato decine di altri fratelli che si battono con lui e per lui.
Partecipa alle operazioni di rafforzamento della Vetta Chapot, dove gli scontri continuano anche dopo la battaglia di agosto e i soldati, italiani ed austriaci, continuano a morire.
A novembre la neve inizia a cadere sulle Alpi Carniche ed a metà del mese il livello del manto nevoso arriva tra i 2 ed i 3 metri sul Pal Piccolo, con punte di addirittura 7 metri oltre quota 2000.
Le condizioni del terreno non fermano però la guerra, anzi sono l’ideale per un’ incursione. Nella serata del 17 novembre 100 soldati austriaci del 7° Reggimento Schuetzen Carinziani e altrettanti appartenenti all’8° Reggimento Feldjaeger Stiriani muovono silenziosamente nel buio, diretti rispettivamente verso i monti Freikofel e Pal Piccolo. Indossano un mantello bianco, che li rende simili a fantasmi ed hanno gli scarponi avvolti nella tela di sacco, per non farsi udire mentre si avvicinano alle posizioni italiane per quella che nelle intenzioni potrebbe portare alla conquista della posizione ed al ribaltamento della situazione strategica sul Pal Piccolo.
Poco dopo le 20 gli schuetzen riescono ad arrivare ai reticolati, che tranciano senza difficoltà, quindi arrivano ai cavalli di frisia, i quali però sono piantati in profondità nella neve. È a quel punto che le sentinelle italiane sul Freikofel scoprono i movimenti degli austriaci.
“ALLARMIIIII!!!”
Giuseppe sta uscendo dalla grotta quando sente gli spari. Istintivamente si volta verso destra, verso le altre posizioni del Pal Piccolo ed è in quel momento che anche le sentinelle della Vetta Chapot, che hanno udito gli spari provenienti dal Freikofel, urlano “ALLARMIIII!!”
I feldjaeger austriaci sono riusciti a tagliare reticolati e cavalli di frisia ed ora stanno sciamando attraverso il varco. Le sentinelle italiane aprono il fuoco con i moschetti ’91, ma sono solo in una decina contro oltre cento uomini che ora avanzano verso il bordo della trincea, scagliando granate e sparando con i Mauser.
Il sottotenente Giuseppe Cuffaro vede quell’ondata di fantasmi vestiti di bianco scavalcare il parapetto ed entrare nella trincea italiana, sparando su qualsiasi cosa si stia muovendo.
“Viliacchi italiani arrendetevi!” grida una voce in un italiano dal pesante accento tedesco e poi due, tre, quattro spari e poi decine e le urla delle sentinelle morenti.
Giuseppe intuisce che se gli italiani non respingono il nemico, la Vetta Chapot cadrà nelle mani degli austriaci e con loro l’intero monte Pal Piccolo, che diventerà il loro cimitero.
Blocca un paio di soldati in fuga dalla posizione, in preda al panico, e li costringe bruscamente a ritornare in loro, quindi inizia a radunare un gruppo di alpini, fanti e mitraglieri, dando loro ordini precisi e secchi poi si volta verso gli austriaci che continuano a sciamare attraverso il varco tra i reticolati. Sicuramente non pronuncia una di quelle frasi storiche e spudoratamente inventate che piacciono tanto ai soldati da tavolino, ma si limita ad un incoraggiamento prima di voltarsi verso il nemico e gridare
“SAVOIAAA!!!”
E non è un urlo di guerra, ma un ruggito al quale si uniscono i suoi soldati.
Quello che accade dopo è sporco, spietato e feroce. Le tavole di Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere mostrano decine di irruzioni nelle trincee, ma sono opere d’arte edulcorate, senza alcuna aderenza con la realtà. Gli italiani sono sempre travolgenti, gli austriaci sempre spaventati e puntano le baionette contro gli attaccanti come se non credessero davvero a ciò che fanno e volessero buttare i fucili e darsela a gambe. All’opposto, quando sono gli austriaci ad attaccare, si trovano di fronte ad un muro impenetrabile formato dai soldati italiani.
Interpretazione artistica, appunto.
La realtà, sulla Vetta Chapot, è molto più brutale. Nelle trincee gelate austriaci ed italiani si uccidono tra di loro con tutti i mezzi. Armi da fuoco, baionette, pugnali, addirittura le mazze ferrate usate dagli incursori per finire le sentinelle. Ogni mezzo, anche il più crudele, viene usato per sopravvivere. Il giornalista e volontario di guerra Paolo Monelli, tenente degli alpini, fa nel suo “Le scarpe al sole” una descrizione terribile e vivida di una battaglia nelle trincee, inserendo il racconto, atroce nella sua semplicità, che uno dei suoi alpini, Pretto, sfuggito ad un’incursione degli ungheresi in una trincea del Trentino, gli narra quando riesce miracolosamente a raggiungere le linee italiane
“(…) si son veduti ruzzolare addosso un battaglione ungherese che vociava “viliacchi taliani, arrendetevi!” e giù una grandine di bombe, una mischia accanita nei camminamenti e intorno alle nostre due mitragliatrici finché non le spezzarono le bombe: e lui, Pretto, ha veduto il capitano Ripamonti ferito, svenuto, sulle spalle di un alpino che cercava di salvarlo, ferito anche lui; e voleva aiutarlo, ma s’è visto addosso due giganteschi ungheresi che gli urlavano “In cinocchio! Precare! Precare!” e tutt’attorno morti e feriti, e la posizione perduta e allora “ghe go piantà la baioneta ne la pansa a un, quell’altro lo go butà par la Valsugana, e mi son qua”
Sulla Vetta Chapot la mischia nella trincea si fa furibonda. Italiani ed austriaci si scontrano negli stretti camminamenti, dove la neve alta impedisce spesso il passaggio di più di un paio di persone alla volta.
La neve ghiacciata che copre i camminamenti diventa presto un’ orrenda poltiglia di sangue e di materia e di corpi, sulla quale i combattenti scivolano inciampano e sulla quale muoiono, quando i nemici li calpestano con i pesanti scarponi chiodati.
Poi, prima impercettibilmente quindi con più forza, gli italiani iniziano a respingere gli austriaci ormai esausti.
“AVANTI!” urla trionfante Giuseppe avanzando. Ora gli austriaci arretrano visibilmente e si battono con gli italiani per ogni curva, ogni angolo, ogni postazione, sino a che, proprio davanti alla postazione delle sue mitragliatrici, un feldjaeger che sta proteggendo la fuga degli altri austriaci lo inquadra nella tacca di mira del proprio fucile e preme il grilletto.
E’ un colpo solo, esploso da non più di cinque o sei metri. Un colpo impossibile da sbagliare .
Il proiettile colpisce Giuseppe in pieno petto, scaraventandolo contro la parete della trincea.
Gli altri soldati abbattono il feldjaeger, prima che possa tentare di scavalcare il parapetto e raggiungere le linee austriache. Un fante ed un alpino afferrano Giuseppe e lo trascinano al riparo.
Ora Giuseppe si porta le mani al petto e poi le guarda incredulo, coperte di sangue scuro.
“Oh Madonna…” mormora mentre i suoi soldati lo appoggiano contro un mucchio di neve. “Oh, Madonna…” ripete, mentre continua a guardarsi inebetito i palmi delle mani e intorno a lui i suoi mitraglieri e gli alpini gridano concitatamente.
“SIGNOR TENENTE!”
“SANITAAAA’!!!”
Giuseppe ora alza lo sguardo sorpreso, come se avesse udito all’improvviso una voce che non si sarebbe mai aspettato di udire.
Uno dei suoi mitraglieri gli parla “Signor tenente, stia tranquillo, stanno arrivando quelli della Sanità e…”
Ma Giuseppe non lo ascolta.
Ora sembra riconoscere qualcuno tra i soldati che lo stanno attorniando.
Si illumina in volto e sorride, mentre mormora qualcosa di incomprensibile, forse un nome, prima di accasciarsi sulla neve.
“Signor tenente!”
“Signor tenente!”
“SIGNOR TENENTE!”
Ma Giuseppe non è più lì.
I suoi soldati non possono sapere che Corrado è venuto a prendere suo fratello.
Giuseppe venne trasportato a valle e sepolto in una buca scavata nella terra gelata del cimitero di guerra di Casera Pal Piccolo.
Nel Dopoguerra la salma venne trasferita nel Sacrario di Timau, costruito grazie agli sforzi umani ed allo spirito cristiano di un uomo eccezionale come pre Tita Bulfon, il parroco di Timau che per anni aveva percorso l’alta valle del But raccogliendo oltre 1700 resti dei soldati italiani e austroungarici caduti sui campi di battaglia della valle, tra i quali anche quelli della portatrice carnica Maria Plozner Mentil.
Giuseppe Cuffaro riposa lì, ancora oggi.
L’Esercito onorò la memoria del sottotenente Giuseppe Cuffaro con una Medaglia d’Argento al Valor Militare. La Polizia ricorda il delegato di PS Giuseppe Cuffaro con una lapide nel Sacrario dei Caduti.
Ignoriamo se nell’antica Questura di Milano vi fosse una lapide o qualsiasi altra cosa dedicata alla memoria di Giuseppe e del suo amico e collega Guido Alessi, Caduto nel giugno 1918 sul Montello, a pochi mesi dalla fine della guerra. Di certo non esiste nell’attuale sede della Questura del capoluogo lombardo.
Oltre a Giuseppe e Guido almeno altri due funzionari di Polizia caddero durante la Grande Guerra. Il primo, il delegato Giuseppe Bois dell’Ufficio di P.S. di Ivrea, cadde il 27 agosto 1915 sul monte Rombon, come sottotenente degli alpini, il secondo, il delegato Vincenzo Eboli, cadde il 10 novembre 1915 sul monte Peuma, come sottotenente del 69° Fanteria. Aveva 22 anni e si trovava al fronte da poco più di due settimane.
Altri ancora caddero sui campi di battaglia, combattendo come soldati del Regio Esercito, ma la Storia della Polizia non li cita e di loro, a meno di una non impossibile scoperta d’archivio, non ne conosceremo mai il nome.
Raffadali, dicembre 1916
Libertino Cuffaro comprende immediatamente, non appena vede il sindaco esitante dinanzi alla soglia di casa. “Anche Pippo…” mormora, passandosi la mano davanti agli occhi. È quasi un’implorazione al cavaliere Alfonso Dibenedetto che intuisce il sottinteso “Ti prego, dimmi che non è così”.
Il sindaco apre la bocca due o tre volte, come un pesce fuori dell’acqua, mentre cerca di trovare le parole giuste da dire poi entrambi si accorgono della presenza di Giovanna.
E’ lì, sull’ingresso. Nelle mani tormenta uno straccio. E’ uscita di casa improvvisamente, come se avesse “sentito” dentro di sé la tragedia incombente ed ora attende, con le labbra tremanti.
Il sindaco Dibenedetto pensa che la morte di Corrado, avvenuta un anno prima, l’ha invecchiata di almeno venti. Ed ora.…
Libertino si avvicina alla moglie “Giovannina…” Giovanna lascia cadere lo straccio, che finisce sulla strada polverosa. “Nina…” Giovanna agita le mani davanti a sé e indietreggia, senza dire una parola, come se volesse allontanare da sé insieme al marito anche la notizia che sta per arrivare e colpirla con la forza di uno tsunami. “Nina…”.
Il marito le tocca dolcemente il braccio sinistro ed è come se avesse premuto un interruttore, perché è in quell’istante che Giovanna inizia ad urlare.
Un urlo terribile, atroce, che lacera l’anima.
E’ un urlo che puoi udire ancora oggi, nelle notti d’inverno sul fronte di pietra.
“Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell’elmetto/ tutti portavano l’insegna del supplizio nella croce della baionetta/nelle tasche il pane dell’ultima cena/ e nella gola il pianto dell’ultimo addio”
Iscrizione di un anonimo Poeta Soldato italiano nella Galleria del Castelletto, sulle Tofane
Dedicato a tutti loro.
Fonti principali ed opere consultate
“Guerra sulle Alpi Carniche e Giulie” di Adriano Gransinigh, Tolmezzo 2015
“Un anno di guerra a Pal Piccolo” di Guido Poggi, Tolmezzo 2009
“Da sbirro ad investigatore” di Giulio Quintavalli, Roma 2017
“L’Italia di Giolitti” di Indro Montanelli, Milano 1974
“Sui campi di battaglia – il Cadore, la Carnia e l’alto Isonzo” AAVV, Milano 1937
Domenica del Corriere, raccolte 1915 e 1916
Storia Illustrata, maggio 1985