I PANNI SPORCHI (l’amaro caso della guardia Giovanni Pasqualoni, assassinata da una circolare – Roma, 1907)
I PANNI SPORCHI
(l’amaro caso della guardia Giovanni Pasqualoni, assassinata da una circolare – Roma, 1907)
“Pro Rege Pro Lege”
“Per il Re e per la Legge” dice il motto delle Guardie di Città, i cui membri sono fedeli a quelle parole, fino all’estremo sacrificio.
I poliziotti vengono osannati (a volte) dalla retorica dell’Italia post risorgimentale come uomini fieri ma bonari, severi ma giusti ed i loro atti di coraggio e di vicinanza al Cittadino vengono rappresentati sulle tavole della stampa popolare.
La maggior parte delle guardie di città sono davvero così, uomini rudi (a volte troppo) capaci di affrontare pericoli incredibili per l’osservatore moderno.
Molti poliziotti cadono negli scontri contro i briganti, i criminali, contro i balordi di strada, nelle catastrofi naturali, nella pandemia di influenza spagnola e troppo spesso i nomi di questi umili eroi sono stati dimenticati dalla Storia.
E’ un lato nobile, fiero, a cui attinge a piene mani la pubblicistica dell’Italia Liberale e del quale andare orgogliosi ancora oggi.
Ma c’è anche un lato oscuro.
Tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 il Corpo delle Guardie di Città viene scosso da un’impressionante ondata di suicidi, compiuti o tentati, da parte di poliziotti quasi sempre giovani e quasi sempre arruolati da pochi anni.
Accade in tutta Italia e leggere di queste vicende sui giornali del tempo, come facciamo noi per motivi di studio e dovere di ricerca, ci lascia amareggiati ed allibiti.
Quali possono essere state le ragioni di questa tempesta autodistruttiva?
Beh, non riusciamo a capire i motivi dei suicidi odierni, figurarsi se riusciamo a intuirli per quelle di un secolo fa.
Certo, la disciplina è dura, lo stipendio di una guardia non è esaltante, gli orari di servizio sono pesanti, la lontananza da casa si fa sentire in un’epoca in cui i collegamenti epistolari sono affidati alle Regie Poste e i collegamenti ferroviari sono obiettivamente complicati.
Ma basta questo per spiegare le ragioni di quella che appare essere un’emergenza?
guardie di Città, inizio XX° Secolo (si ringrazia il gruppo FB Polizianellastoria)
Per cogliere l’immediatezza della percezione di come i problemi della polizia vennero affrontati dall’opinione pubblica di allora è utile la consultazione delle cronache del tempo. Come quella del “Manuale del Funzionario di Sicurezza Pubblica”, la rivista che tra il 1863 e il 1912 è la voce ufficiosa degli appartenenti all’Amministrazione di P.S. del Regno d’Italia.
Il periodico, diretto dal senatore Carlo Astengo, gode di una libertà editoriale che ci lascia piacevolmente sorpresi: nelle sue pagine vengono pubblicati articoli che parlano della necessità di una riforma del Corpo (delle Guardie di Pubblica Sicurezza prima e delle Guardie di Città poi) e lettere da parte di funzionari, sottufficiali e guardie, che denunciano con chiarezza il disagio all’interno della Polizia, parlando della necessità di un cambiamento della disciplina, dei rapporti tra vertice e base, della ridiscussione dei ruoli.
Dei suicidi però si accenna poco. E’ come se anche degli uomini moderni ed innovatori dell’intelligenza di Astengo e dei suoi redattori provassero disagio a toccare un simile argomento, considerandolo quasi radioattivo.
La maggior parte dei quotidiani da noi consultati ne parla solo in rubrichette dai titoli evocativi come “Gli stanchi della vita” o “I volontari della morte” o in articoletti di poche righe, nei quali ci si limita a citare nome e cognome della vittima e le circostanze della morte.
Uno dei pochi che ne parla come di un problema, collegandola al disagio interno nelle Forze di Polizia, è il quotidiano romano “il Messaggero”, fondato nel 1879, schierato con quella che oggi si chiamerebbe “sinistra moderata”.
Gli articoli del Messaggero sono precisi, spietati e circonstanziati, provenienti con ogni probabilità da più fonti interne alla Questura di Roma, da poliziotti stanchi di un’istituzione ingessata ed immobile.
Già il 19 gennaio 1885 l’anonimo e bravissimo cronista del Messaggero, in un articolo pieno di rabbia e dolore, racconta del suicidio del brigadiere di PS Domenico Boaretto, un poliziotto di prim’ordine, pluridecorato e perbene però mobbizzato e messo nell’angolo dalle gelosie e dalle invidie “…di alcuni superiori, ai quali si potrebbe difficilmente riconoscere un merito al di là dei molti galloni che portano (…)” e che gli scatenano contro “…codesta guerra sorda, bassa, codarda alle spalle…” che infine porta il povero sottufficiale a spararsi due colpi di rivoltella alla gola nelle latrine della caserma di Polizia di Campo Marzio.
L’ottimo cronista del Messaggero (il cui stile e la cui passione avrebbero molto da insegnare ai suoi colleghi moderni) conclude l’articolo con parole durissime che meriterebbero di essere scolpite nel marmo e che certamente avranno fatto sobbalzare sulle loro comode poltrone i vertici della Regia Questura di Roma e del Ministero dell’Interno:
“ Non farò recriminazioni inutili: chi non sente pietà pei vivi è incapace di sentire rimorso pei morti.
Una sola cosa aggiungerò a quel tanto che ho detto, ed è questa – che grazie alla condizione a cui gli uomini del ministero dell’interno han ridotto il corpo di pubblica sicurezza, dove il merito è sopraffatto dalla camorra, i migliori agenti o se ne vanno o si ammazzano”
(“il Messaggero”, 19 gennaio 1885)
Nonostante le denunce del Messaggero e di altri quotidiani ed i sobbalzi sulle poltrone, la situazione non cambia di molto.
Le condizioni di lavoro sono durissime, gli orari difficili, la disciplina assurda, le paghe non adeguate e il merito non sempre riconosciuto. E i poliziotti continuano a morire.
Sulle cronache di vari organi di stampa italiani tra il 1885 ed il 1915 abbiamo contato decine di suicidi e di tentati suicidi.
E’ un’emergenza che chi, all’epoca, aveva un minimo di responsabilità istituzionale avrebbe dovuto contrastare o quantomeno studiare, come avrebbe dovuto fare il tenente colonnello Luigi Siglienti, comandante delle Guardie di Città di Roma.
Guardie di Città in servizio di pattuglia, fine XIX Secolo (per gentile concessione della pagina fb Polizianellastoria)
Il cavalier Siglienti proviene dalla Legione di Roma dei Reali Carabinieri, dove ha raggiunto il grado di maggiore dopo una carriera come tante, senza infamia e senza lode.
Nel 1899 l’Arma lo ha posto in servizio ausiliario per “ragione d’età”, come pubblica il Bollettino Militare, ed è entrato nel Corpo delle Guardie di Città come comandante della forza di Roma. Un incarico prestigioso, finalmente, che gli permette di farsi valere.
Ed è così infatti, perché il cavalier Siglienti non è un codardo pantofolaio.
Affronta difficili servizi di ordine pubblico, come quello successivo all’assassinio di Re Umberto I, quando i manifestanti monarchici cercano di assaltare la sede del giornale socialista “Avanti!”, difeso da un cordone di guardie da lui comandate o come succede nel 1906, nel corso di un duro scontro di piazza a Roma, dove viene ferito da una pietra scagliata dai manifestanti mentre è al comando dei propri uomini.
Non si tira indietro nemmeno di fronte a dei “normali” arresti, come accade nel 1902 quando rischia di beccarsi un proiettile mentre partecipa alla cattura di un folle che spara revolverate contro i passanti nel centro della Capitale
No, il cavalier Luigi Siglienti, tenente colonnello del Corpo e comandante delle Guardie di Città di Roma, non è certo un codardo ma, ad onta dell’indubbio coraggio personale, è un burocrate che vede in ogni critica al Corpo un attacco sovversivo.
Lo si capisce nell’ottobre del 1907 quando, di fronte all’ennesima ondata di suicidi compiuti o tentati da parte di poliziotti, il colonnello Siglienti decide di porre un freno.
Ma non ai suicidi (per carità di Dio!) bensì agli infami articoli del Messaggero e degli altri organi sovversivi che infangano il buon nome del Corpo.
E’ così che il buon colonnello partorisce un’incredibile circolare interna, destinata ai comandanti delle quattro compagnie di guardie della Capitale e che riproponiamo nella sua integralità.
Roma, 28 ottobre 1907
Nel partecipare alle SS.LL che la direzione dell’ospedale militare principale mi informa che esiste il posto di pronto soccorso presso tale nosocomio, significo altresì che prescrivo tassativamente che gli agenti tutti a qualsiasi brigata appartengano ed in qualsiasi caso, anche se abbisognevoli di urgente assistenza medico chirurgica, in dipendenza di ferite o lesioni riportate in servizio, siano fatti ricoverare senz’altro nel detto nosocomio o ivi trasportati ove necessario a mezzo di una vettura pubblica, per la quale la spesa andrà a carico dell’agente infermo.
Tale disposizione per la scrupolosa osservanza sarà dalle SS.LL. portata a conoscenza dei dipendenti comandanti di brigata a chiamare direttamente responsabili di ogni trasgressione, ed a cura dei quali sarà trascritta su apposita tabella da affiggersi nei corpi di guardia, e resto intanto in attesa di un cenno di ricevuta ed assicurazione.
F. [firmato] Siglienti
(il grassetto è nostro)
La maggior parte dei poliziotti di Roma sarà certo rimasta altrettanto basita, e tra loro parecchi ufficiali del Corpo e funzionari di P.S..
Perché la circolare è incredibile, anche per la severa disciplina della prima metà del XX Secolo. Il documento è crudele, spietato, intrinsecamente malvagio e mirante a tutelare non la vita del proprio dipendente ma la faccia del Corpo e dell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza del Regno in nome dell’immortale ed ipocrita principio dei panni sporchi da lavarsi in famiglia perché, siamo sinceri, il poliziotto che si spara una revolverata alla gola nella latrina della caserma è visto come una vergogna e, se questo stesso poliziotto viene trasportato in un ospedale pubblico di fronte a medici, sanitari e civili, è di fatto una pessima pubblicità per il Corpo delle Guardie di città.
Ma, a quanto pare, anche il poliziotto ferito o infortunato in servizio è un panno sporco (o volevate davvero che un militare tutto d’un pezzo come il colonnello scrivesse la parola “suicidi” su un documento ufficiale? NDR) e, se proprio vuol farsi operare per le ferite subite nell’adempimento del dovere se ne vada all’ospedale militare del Celio a sue spese, qualsiasi siano le sue condizioni e da qualsiasi parte di Roma provenga (e che è? Il poliziotto non pretenderà mica che lo Stato si accolli le spese mediche per la coltellata che si è buscato per difenderlo? NDR)
In queste righe imperative il colonnello Siglienti abbandona consapevolmente i propri uomini al loro destino, in nome dei panni sporchi da lavarsi in famiglia. Però siamo sicuri che la circolare sia solo opera sua? Siamo certi che un burocrate come lui, ufficiale tutto d’un pezzo e buon esecutore di ordini ma che non ha mai dato grande prova di spirito d’iniziativa, abbia avuto una simile alzata d’ingegno senza consultarsi prima con la Questura, la Prefettura o addirittura con il Ministero dell’Interno o addirittura dopo aver ricevuto un ordine implicito oppure esplicito da parte di qualcuna di queste autorità?
L’opinione pubblica viene a sapere quasi subito dell’esistenza di questa circolare ad opera del cronista del Messaggero che ne scrive il 7 novembre 1907.
Il cronista stigmatizza duramente il documento (sicuramente fornitogli da un poliziotto indignato) definendolo una “peregrina pensata” e “cosa da tramandarsi ai posteri” per la sua assurdità.
Quello stesso giorno la “peregrina pensata” del cavalier Siglienti ucciderà un poliziotto.
Guardie di Città, fine XIX Secolo (si ringraziano il gruppo Polizianellastoria.it e l’amico Marcello Denti per la cortese concessione della fotografia)
La guardia di città Giovanni Pasqualoni, originaria di Camerino in provincia di Macerata, ha 22 anni e si trova in Polizia da due, dopo avere prestato servizio militare nel Regio Esercito.
E’ in forza presso la caserma delle guardie di Campo Marzio (la stessa dove 22 anni prima si era tolto la vita il brigadiere Boaretto, ricordate? NDR ) posta tra via delle Colonnette e via di San Giacomo.
Alle 9 del mattino del 7 novembre, proprio mentre nelle edicole romane le copie del Messaggero rivelano il contenuto della circolare di Siglienti, Giovanni scende nella mensa della caserma, dove mangia un boccone prima di recarsi in servizio presso il Palazzo del Senato, dove è previsto un servizio di ordine pubblico.
Dopo aver fatto colazione e con un po’ di tempo libero a disposizione, Giovanni decide di fare una passeggiata prima di iniziare il proprio turno.
Sono le 9.30.
Meno di mezz’ora dopo i colleghi sorpresi lo vedono rientrare in caserma
“Aiutatemi, mi sento tanto male: pare mi si levi il lume dagli occhi!” dice agli amici, che sorreggendolo lo accompagnano nella sua camerata. Qui Giovanni inizia a vomitare, quindi sviene.
Gli amici sono spaventati. Cercano inutilmente di farlo rinvenire con panni caldi ed un sorso di cordiale, ma è tutto inutile. Giovanni non si riprende.
Bisogna portarlo in ospedale, del resto c’è il San Giacomo a pochi metri.
Un graduato si oppone. Ci sono gli ordini del colonnello Siglienti, bisogna portare Giovanni all’ospedale militare del Celio, distante chilometri.
Qualcuno dei colleghi urla con rabbia che non è possibile, che Giovanni morirà prima di arrivarci.
Il Messaggero dell’8 Novembre scriverà che la risposta è stata
“Speriamo di no! Noi dobbiamo ubbidire agli ordini superiori”…
Frase che, se non vera, suona purtroppo verosimile.
E’ così che viene fatta giungere una vettura pubblica, una botticella, come vengono chiamate a Roma.
Giovanni, semisvenuto, viene fatto salire a bordo insieme a due colleghi e adagiato sul pavimento del carrozzino. La botticella inizia a correre nelle vie di Roma ma, fatte poche centinaia di metri in quella che è oggi Via del Corso, il cavallo scivola sull’acciottolato della strada e spezza le stanghe del carrozzino.
“Anche il destino si associava alla circolare del colonnello Siglienti contro la povera guardia!” scriverà il giorno successivo il cronista del Messaggero.
Le stanghe vengono riparate in un quarto d’ora, quando ogni istante è prezioso e, circa una ventina di minuti dopo, quando è ormai stato sballottato come un sacco mezzo vuoto dal carrozzino sull’acciottolato e la strada in terra battuta delle vie di Roma, Giovanni raggiunge ormai in condizioni disperate l’ospedale militare del Celio.
Qui un ufficiale medico gli diagnostica una commozione cerebrale e lo fa immediatamente ricoverare in corsia, ma è ormai troppo tardi.
Il giovane poliziotto vomita ancora, prima di perdere definitivamente conoscenza.
Morirà alle 13 e 30 del 7 novembre 1907 vegliato da un amico, la giovane guardia Moretti che lo ha assistito dal malore in caserma sino alla grottesca corsa in botticella verso il Celio.
Quali sono state le cause del decesso? Il Messaggero ipotizza un colpo apoplettico mentre l’ufficiale medico del Celio che ha potuto visitare il paziente ha, come detto, diagnosticato una commozione cerebrale.
Difficile dire come sia andata, a distanza di oltre un secolo, ma certo il non aver trasportato immediatamente Giovanni presso l’Ospedale San Giacomo, vicinissimo alla caserma di Campo Marzio, la corsa del carrozzino attraverso le vie di Roma e l’incidente di Via del Corso hanno certamente contribuito all’assurda fine del giovanissimo poliziotto.
Il tenente colonnello Luigi Siglienti, comandante delle Guardie di Città di Roma, probabilmente avrà appreso la notizia della morte del suo giovane agente nel tardo pomeriggio di quel giorno, da una telefonata proveniente dalla caserma di Campo Marzio o dal Celio.
Sicuramente se ne sarà rammaricato, perché il cavalier Siglienti è un burocrate, un bravo ufficiale e (nonostante la circolare) anche una brava persona, non un mostro, però molto probabilmente non si sarà reso conto che la sua carriera è finita anch’essa alle 13 e 30, su una branda sporca di vomito dell’ospedale militare del Celio.
Se ne rende conto quando, il giorno successivo, il Messaggero in una cronaca particolareggiata che può provenire solo da uno o più testimoni diretti, certamente poliziotti indignati dalla morte della guardia Giovanni Pasqualoni, rivela ai suoi lettori le assurde circostanze che ne hanno portato alla scomparsa.
Il cavalier Siglienti viene letteralmente fatto a pezzi sulle colonne del giornale e il questore di Roma, con la benedizione del Prefetto, annulla
“ (…) questa circolare assurda, irragionevole, incomprensibile in un uomo chiamato a dirigere un ufficio delicatissimo come il comando delle Guardie di P.S. (…)”
Siglienti è solo.
Che la sua circolare sia stata approvata (o davvero pensate che anche nel 1907 si potesse produrre un documento simile senza il benestare dei propri superiori? NDR) o addirittura ispirata dal Questore e dal Prefetto e forse dal Ministero stesso per “arginare” la pessima pubblicità dei suicidi, non ha alcuna importanza.
A mettere la firma su quel documento è stato lui.
Lui pagherà.
Il 10 novembre, appena tre giorni dopo la morte di Giovanni, il cavalier Siglienti viene posto a riposo per “anzianità di servizio”.
Forse gli è stato lasciato il tempo per vuotare i cassetti della propria scrivania.
La morte della guardia di città Giovanni Pasqualoni è forse la più assurda e grottesca nella quale ci sia mai capitato di imbatterci ed a distanza di oltre un secolo ci lascia ancora increduli.
Con una battuta di humour nero la si potrebbe definire non una morte per causa di servizio, ma a causa del servizio.
La misera fine della guardia Giovanni Pasqualoni fu probabilmente evitabile e non voluta da nessuno e fu “eseguita” da uomini animati dalle migliori intenzioni.
Ma cosa si dice delle strade dell’inferno?
(per la redazione di Cadutipolizia, Fabrizio Gregorutti)
Fonti ed opere consultate:
Quotidiano “il Messaggero” del 19 gennaio 1885
(sui suicidi dei poliziotti tra ‘800 e ‘900)
Quotidiano “il Messaggero” del 7 ed 8 novembre 1907
(per la morte della guardia Pasqualoni)
Quotidiano “il Corriere della Sera” del 22 luglio 1895, 11 agosto 1897, 16 gennaio e 5 novembre 1899, 24 maggio e 1° agosto 1900, 31 Maggio 1902, 23 Gennaio 1906;
Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Interno nr. 3 del 23 gennaio 1908, pag. 127
(sulla carriera del tenente colonnello Luigi Siglienti)
Si ringrazia la pagina FB Polizianellastoria e l’amico Marcello Denti per la cortese concessione delle fotografie qui riprodotte
Un articolo eccellente, frutto di studio e ricerca che rivela passione e stile.
Mi congratulo di cuore, perché accompagna la riflessione del lettore attraverso l’inesorabile puntualità dei fatti.
Uno spaccato di vita del tempo molto interessante, complimenti al ricercatore.
da storico dilettante appassionato ed ex studente di storia, non posso fare altro che rimarcare per l’ennesima volta, l’immensa professionalità che traspira da questi racconti, mai faziosi, mai banali, semplici ma dettagliati capaci di far “respirare e vivere” il fatto, cosa non facile quando si parla di storia dove spesso si può prestare il fianco più a facili interpretazioni che a reali esposizioni di fatti ….ancora complimenti
Complimenti…… bel lavoro