In ricordo di Antonio Annarumma. Un collega
Su Antonio Annarumma e sulla sua uccisione abbiamo scritto tanto, ma mai abbastanza. Nel nostro piccolo abbiamo anche cercato di fare chiarezza su quei fatti, arrivando probabilmente molto vicino all’individuazione del momento esatto della tragedia . Questo ulteriore tassello, trasmesso alla Redazione parecchi anni fa, era stato purtroppo omesso nelle fasi di passaggio dal vecchio al nuovo sito di Cadutipolizia: fu scritto da un collega di Antonio, Giovanni Magliocca, anch’egli coinvolto nella famigerata “battaglia di via Larga”. Un contributo interessante quello di Magliocca, dal punto di vista emotivo, ed una testimonianza di un uomo di parte su uno dei periodi più controversi della storia della nostra nazione. Noi cerchiamo di rappresentare tutti i punti di vista e ringraziamo Giovanni per averci offerto il suo.
In Ricordo di Antonio Annarumma
(di Giovanni Magliocca)
“Una storia dimenticata, una verità distorta e distrutta – racconta Magliocca – il giorno dopo, quella dell’assassinio dell’Agente di Polizia Antonio Annarumma. Era il 19 Novembre del 1969 e succedeva alle spalle del Duomo di Milano: Via Larga. Era di mercoledì, un giorno come tanti per i Milanesi, abituati ormai al folclore delle bandiere rosse, del cosiddetto “autunno caldo”, per i cui disagi alla circolazione e ai negozi ed agli stessi lavoratori, poco si faceva per riportare alla normalità le tante schegge impazzite di una rivoluzione annunciata e pubblicizzata dalle più disparate sigle del più abietto estremismo della militanza comunista, proiettata verso un delirio di onnipotenza ed un’orgia di violenza inaudita per una città civile come Milano.
Per noi poliziotti, invece, l’ennesimo sacrificio mattutino, l’ennesimo servizio iniziato alle 3 del mattino per stazionare nei punti nevralgici del percorso dei dimostranti; l’ennesimo servizio d’Ordine Pubblico affrontato con scarso e stanchissimo personale costretto a rientrare di buon ora alla mezzanotte di ogni giorno per riuscire in servizio alle 3 del mattino, per fronteggiare una marea d’imbecilli imbevuti di odio ideologico e pronti a prendersi la propria giornata di gloria, in onore alla militanza, per qualche scaramuccia con “i servi dei padroni” che eravamo, poi, noi poliziotti.
Siamo nel giorno della ennesima manifestazione sindacale con CGIL CISL UIL e l’accozzaglia dell’estremismo che a vario titolo partecipavano a questo esercizio di banditismo politico, sempre più deciso ad imporre il proprio potere al Parlamento con la imposizione della piazza.
C’erano, infatti, insieme alle onorate sigle sindacali tutti i facinorosi coriandoli dell’estremismo rosso, dagli Anarchici a potere operaio fino ai marxisti – leninisti di estrazione maoista, questi ultimi per l’occasione si erano dati appuntamento al Teatro Lirico di Via Larga di Milano, mentre i sindacati ufficiali manifestavano in piazza Duomo.
La manifestazione si articolava in un corteo dei sindacati che si sarebbe mosso da piazza Duomo, per corso Vittorio Emanuele, Piazza Festa del Perdono, Via Larga, imbocco via Pantano, ritornando poi di nuovo in Piazza Duomo. Un corteo di ben 30.000 mila dimostranti, girò per due volte il percorso, nel primo i dimostranti si approvvigionarono di tubolari delle impalcature edilizie, la seconda volta i tubolari comparvero contro di noi.
La dinamica dell’inizio della guerriglia, di certo sarebbe stata studiata a tavolino, perché lo scontro avvenne allorquando i maoisti che uscivano dal teatro lirico si stavano accodando al corteo dei sindacati scortati a corta distanza dalle jeep della polizia.
Fu in quel momento che una delle militanti maoiste, fingendo di essere stata urtata da uno dei mezzi di scorta, si buttò a terra gridando: la polizia carica! Quello doveva essere il segnale del proditorio attacco alla polizia. Fu l’inizio dell’inferno.
Era mezzogiorno che non descrivo di fuoco poiché fu una vera e propria guerra. Non si sparò per il buon senso di tutti noi. Nulla fu risparmiato contro di noi, dai tubolari del primo assalto, ai sampietrini, alle biglie di ferro, fino a stracci imbevuti d’acido ed incendiati, accompagnati dal lancio delle famigerate molotov.
Dimostranti coperti in volto, accorrevano da ogni parte, sbucavano come dal nulla, dalla zona della Università Statale, occupata col patrocinio di Mario Capanna, per lanciarsi contro di noi in Via Larga. Veri assalti di guerriglia.
Un orda di delinquenti in assetto di guerriglia, con sciarpe rosse al collo, fazzoletti al viso, tascapani a spalla ripieni e bottiglie molotov si riversarono come avvoltoi sulla preda di appena trecento poliziotti in tutto.
In quest’orgia di violenza un tubolare colpì alla testa Annarumma che si accasciò sul volante della sua jeep, perdendone il controllo, venendo disarcionato dalla stessa jeep dal mezzo di un altro collega che lo tamponò, nel mentre si disponeva “a carosello”, secondo le istruzioni antiguerriglia per i casi in questione.
Lo ricordo sul selciato di Via Larga, con la testa immersa in una chiazza di sangue e la materia cerebrale che gli fuoriusciva dal cranio.
Una interminabile guerriglia che iniziata alle 12,00 finì alle 14,40, quando sfiniti dovemmo affrontare l’ultima umiliazione, in quanto, nel prendere posto sui mezzi che ci avrebbero dovuto portare in caserma fummo costretti a passare, sotto le forche caudine di due ali di dimostranti che ci riempirono di sputi, dimostrando che il loro odio non si fermava nemmeno davanti all’assassinio del poliziotto.
Torpore e rabbia erano i sentimenti che ci accompagnavano nel dover prendere atto della pochezza dello Stato e della pusillanimità dei tanti suoi rappresentanti.
In caserma S. Ambrogio molti poliziotti svennero per attacchi d’isterismo a causa di tutto quanto di tossico avevano dovuto respirare in Via larga.
La nostra sembrava la caserma della ritirata di Caporetto. Un silenzio assordante, volti grigi e tanta ma tanta amarezza dentro, a fronte di una classe politica vile e pericolosa che vendeva la Polizia per ingraziarsi, fin d’allora, i futuri padroni della piazza e dello Stato, abbandonandola alle farneticanti intenzioni rivoluzionarie degli assalitori quotidiani con lo scopo di intimidire i benpensanti, che non avrebbero accettato il nuovo corso politico di una sinistra al potere.
Quanti danni a cose, persone e forze dell’Ordine si dovettero subire. La storia infame non si fermò davanti a quell’assassinio, di fronte al quale tutti avrebbero potuto e dovuto avere un momento di riflessione e fermare quel delirio di follia rivoluzionaria ed omicida; ma non fu così, poiché per primo si cercò di ridimensionare l’accaduto, con l’atavico vizio della menzogna, sostenendo la tesi di una morte accidentale, poi cercando di addossare colpa ad ipotetici infiltrati, per finire a colpe di qualche ipotetico compagno che avrebbe potuto sbagliare.
Supposizioni indicate nella martellante propaganda dei gruppuscoli e stampa indipendente tesa ad acclarare un attacco della polizia ai lavoratori.
Non si stese neanche un velo di pietas, che poteva essere supportato dalla retorica per il destino di un ragazzo venuto dal sud e morire a Milano per pochi soldi; ne di meno della commiserazione di un padre che da buon contadino traeva orgoglio di un figlio poliziotto, sentimento tra l’altro provato dai nostri genitori, e che per quel piccolo orgoglio aveva definitivamente perso l’unico figlio maschio.
No.
Tutto ciò non poteva esistere, perché rimanevi un poliziotto nemico del proletariato. Non contava poi che eri un ragazzo povero, che delle 65 mila lire al mese 40 mila le mandavi a casa per il papà contadino.
Non contava l’angoscia e la disperazione di un padre che non capiva neanche il perché fosse potuto succedere quella disgrazia al suo ragazzo così buono, bravo, ed educato.
Qualunque sentimento finiva al macero di una ideologia che aveva la pretesa di distruggere quella umanità e buon senso che ognuno di noi porta dentro, pur di imporre la fredda ragione di una logica assassina e ideologica.
Non nascondo che dopo il silenzio iniziale, nella Caserma S. Ambrogio di Milano, col passare delle ore e man mano che tutti i reparti rientravano dai servizi, cui erano stati destinati, l’aria cominciava a diventare pesante e la follia di una rivalsa si stava impadronendo di tutti noi.
La scintilla scoppiò allorché il Reparto di Senigallia al rientro da Bergamo dove era dislocato si rese conto di ciò che era accaduto a Milano, degli assalti da noi subiti, dei facinorosi del Movimento studentesco che con Mario Capanna ancora occupavano la Università Statale, decisero di uscire dalla Caserma per dare una lezione agli occupanti della Università, tra l’altro in maggioranza estremisti e guerrafondai, equipaggiati in assetto da guerriglia urbana.
Fu allora che la Caserma tremò, come tremarono i tanti ufficiali, l’infermeria continuava a ricevere agenti feriti e quelli che svenivano per la tossicità dei gas respirati; le stanze furono invase da lacrimogeni per costringere tutti a scendere nel piazzale.
Gli ufficiali superiori, spauriti, sparirono.
Si limitarono a filmare le scene dai piani alti del cortile. La tensione era altissima, l’unico ufficiale superiore che tentò disperatamente di impedire l’uscita degli automezzi, fu strattonato, anche se riuscì nell’intento, in quanto la pausa favorì la possibilità di un dialogo interlocutorio.
Non venne accettato nessun ufficiale come interlocutore dei cinquemila agenti di stanza nella Caserma, alloggiati per l’occasione, anche nelle piccionaie. Solo il Questore Guida, non senza difficoltà, ebbe il via libera ad interloquire con i poliziotti.
Non so come, ma quella sera l’interlocutore, a causa della voce afona del Questore, che dovette trasmettere a tutti le parole da riferire fui proprio io, Giovanni Magliocca, collega di corso di Annarumma, arrivato al III Reparto Celere, da dove da poco io ero stato trasferito alla Caserma S. Ambrogio.
In quella bolgia di lamentele, di rabbia, di imprecazioni contro gli ufficiali superiori e recriminazioni circa i massacranti servizi, ricordo aver detto con voce nitida e tonante una frase suggeritami dal questore: “Bisogna stare attenti, perché se noi ci abbandoniamo a reazioni incontrollabili perderemo quel poco di credibilità che ancora abbiamo nella opinione pubblica milanese”.
Ancora, di fronte alle lagnanze della insostenibilità del servizio, senza riposi ed incentivi, mi fu ordinato di dire: “Noi siamo lo Stato, vedrete che le cose cambieranno”.
Comunque quanto da me detto, i riferimenti del questore, frenarono gli impulsi, generarono apprensioni ed anche preoccupazioni sulla condotta militare.
La stanchezza fece il resto, si rientrò a miti consigli e verso l’agognato riposo.
Il giorno dopo, 20 novembre di primo mattino si pensò subito, da parte degli ufficiali superiori, mandare via il reparto di Senigallia, noto per la intemperanza dimostrata, mentre alle 10,00 si assistette alla ennesima provocazione, per un corteo di militanti comunisti che sfilò davanti la caserma per sfidare chi aveva il morto in casa.
In fretta e furia si chiuse il portone, mentre montava di nuovo la protesta, per questa provocazione, ancora una volta non capimmo il perché non ci fosse stato l’ordine di disperderli, visto l’aria di lutto esistente per l’Agente ucciso. Ancora tensione, ancora una grande paura.
Capimmo poi che l’apparato politico milanese, con in testa il Sindaco Aniasi e suoi referenti di partito, dai giornali acquiescenti quale il Corriere della Crespi, tuonava contro la polizia etichettandoli “fascisti”, in omaggio alla piazza.
Questa volta però la Polizia si preparava alla sfida. Fu la volta che tremò il Governo. Tanto è vero che davanti alla Caserma S. Ambrogio e davanti il III Reparto Celere della Bicocca furono inviati a stazionare blindati militari con carabinieri. Infine sempre in ossequio alla imposizione della cialtroneria di sinistra che gridava : fuori i fascisti dalla polizia”, e la viltà di chi governava, il 21 novembre, nel mentre si preparavano liste di proscrizione di tanti poliziotti da trasferire e prosciogliere, il Governo dovette rassicurare che le proteste dei poliziotti per il commilitone ucciso erano in assonanza con la vita militare. La spavalderia dei lanzichenecchi rossi non si fermò di fronte a niente, tanto si sentivano impuniti e sicuri, che persino ai funerali di Annarumma, onorato da oltre trecentomila cittadini milanesi, stufi delle continue scorrerie di questa masnada di sinistri delinquenti politici, che mettevano tutti i giorni a ferro e fuoco Milano, si permisero di oltraggiare il morto all’uscita dalla chiesa.
Individuato in Mario Capanna, costui fu sonoramente bastonato dai cittadini. Tutto si concedeva alla canea rossa. Nulla si negava ai politici, già corrotti, favorevoli all’ascesa comunista al potere, fortunatamente, in seguito, anche se tardi la magistratura c’è ne ha liberato. Sull’altare di quella loro viltà molti poliziotti furono immolati e per aver difeso lo Stato, trasferiti e prosciolti. Io sono uno di quelli.
Per il resto, nessun pentito, nessun responsabile. Annarumma non ha ricevuto giustizia. In tutto questo a distanza di tanti anni quello che più fa male è la ipocrisia circa la indulgenza a posteriori che si cerca di dare a chi della violenza ne aveva fatto una pratica di vita ed un mito ideologico. Un revisionismo a senso unico, senza pudore, avulso dei danni prodotti alla coscienza, ai beni, alla vita di tanti, che spesso nulla avevano a che fare con le loro follie rivoluzionarie.
Come i Tanti di noi che dovettero difendere Milano e uno Stato che non c’era. E’ vergognoso far circolare i volti dell’odio e della violenza alla Mario Capanna, quasi a dirgli bravo hai fatto storia. Semmai ci sarà anche qualcuno che in chiave romantica, seppure ex poliziotto alla Michele Placido, si eserciterà nell’enfatizzare: “il sogno di una generazione”.
E poi… Tutto il resto… Non conta. Non contano i morti come Annarumma. Non contano i morti alla Calabresi. Una logica tendente al perdonismo, mantenuta ipocritamente sia quando offendono e ammazzano, sia quando vanno per ammazzare e sono uccisi come nel caso Giuliani al G8, finito per essere un eroe, mentre i delinquenti rimanevano il Carabiniere che si è difeso per non farsi ammazzare e l’altro che ha perso un occhio.
Gli intendimenti criminali vanno tali considerati e comunque sempre perseguiti. Sessantotto e non, delinquenti erano e tali dovranno rimanere, al fine di non alimentare nella società quel cordone ombelicale di intellettuali acquiescenti e revisionisti, attori e giullari senza vergogna che sull’onda della emozione seguirebbero per firmare manifesti di solidarietà, o brindare per la liberazione di qualche delinquente politico, come successo per gli “intellettualoni” del tempo, quando si brindava per il rilascio dei fermati di Via Larga, e si firmavano manifesti per mettere alla gogna, fino al massacro, un grande poliziotto quale era il Commissario Calabresi.
Un disegno politico, non riuscito, il loro, pur avendo costruito l’odio e la follia di quella generazione dei cosiddetti “anni formidabili” con consapevolezza e spietata convinzione, coinvolgendo quella Italia ruffiana, colta e borghese che giocò alla rivoluzione addestrandosi sulla pelle dei poliziotti e magistrati. In nome, dunque del buon senso e del pudore, finiamola – conclude Giovanni Magliocca – con questi revisionismi a senso unico, con la pietas e i fallimenti umani e rendiamo onore agli Annarumma, ai Calabresi, ai Borsellino che del loro senso dello Stato ne hanno fatto un dovere fino alla morte”.