BUIO (il brigadiere Mario Laganà, Castelgandolfo 12 Gennaio 1967)
BUIO
(il brigadiere Mario Laganà, Castelgandolfo 12 Gennaio 1967)
“La verità è che non conosciamo nemmeno la metà dei misteri di questo mondo…vaghiamo nell’oscurità”
(dalla serie televisiva “Dark”)
Rive del Lago di Castelgandolfo, tardo pomeriggio del 12 gennaio 1967
Mario Laganà si muove cautamente nel bosco che costeggia le rive del Lago di Castelgandolfo. In certi tratti del sentiero può udire le onde infrangersi leggere sulle rive.
Stringe tra le mani il proprio fucile da caccia ed è attento a qualsiasi rumore. Chissà se si è fermato ogni tanto, sentendo qualche fruscio tra i bassi cespugli del sottobosco.
Avrà pensato a qualche predatore, forse a una volpe o un tasso ed avrà alzato le spalle tra sé, prima di proseguire attraverso il bosco invernale, dove ancora ci sono tracce delle neve caduta fino a poche settimane prima.
Da bravo cacciatore avrà individuato con un colpo d’occhio il luogo dove fare la posta alle sue prede e si sarà accucciato al riparo, attendendo con santa pazienza. Avrà atteso reprimendo la voglia di accendersi una “Nazionale” e di vedere il fumo azzurrino della sigaretta scomparire nell’aria gelida del bosco insieme al vapore del suo fiato. Si sarà sfregato le mani, per attenuare il freddo che sembra aumentare sempre di più e penetrargli nell’anima.
Poi accade.
La prima ad accorgersi che qualcosa non va è la famiglia del brigadiere Mario Laganà, che lo ha atteso inutilmente per cena nell’alloggio di servizio presso il Posto di Polizia di Castelgandolfo, del quale Mario è comandante. La moglie ha chiamato prima Edmondo S., l’amico con cui Mario è andato a caccia intorno alle 15. Edmondo dice che lui è tornato indietro quasi subito. E’ reduce da una brutta influenza e c’era ancora troppa neve e tanto freddo nei macchioni lungo il lago di Castelgandolfo e non se l’è sentita di continuare. Mario lo ha riportato indietro con la propria vecchia Mercedes, con la quale ha fatto poi ritorno sul lungo lago, nella Tenuta dei Principi Torlonia che, in quel 1967 arriva quasi all’aeroporto di Ciampino e per la quale ha l’autorizzazione di caccia.
La signora Laganà chiama quindi i colleghi del marito, avvisandoli delle sue preoccupazioni, e le guardie di P.S. di Castelgandolfo chiamano i Carabinieri, hai visto mai che sappiano qualcosa…e qualcosa sanno.
Il brigadiere Laganà è riuscito ad abbattere un paio di tordi e si sta dirigendo verso il folto della macchia quando ha incontrato un collega, il maresciallo dei Carabinieri Renzo Venturini, anche lui a caccia. Hanno scambiato insieme due chiacchiere poi le loro strade si sono separate. Venturini si è diretto verso la strada e la propria auto mentre Laganà si è diretto verso il folto del bosco, venendone inghiottito. Venturini ed un altro testimone che sta passando a piedi lungo il lago hanno poi sentito due colpi di fucile provenienti dai macchioni del Lago. E’ l’ultimo segno della presenza di Laganà.
Il telefono diventa rovente, quella notte, e le chiamate si rincorrono tra Castelgandolfo e Roma. Duecento agenti e carabinieri battono per giorni le rive del lago. Tra loro c’è anche il brigadiere Maimone, il decano dei poliziotti cinofili italiani, il quale con il suo cane Dox ha scritto una pagina di storia della Polizia italiana del Dopoguerra. I cani di Maimone riescono a scovare una traccia nei boschi lungo il lago ed iniziano a correre in preda alla frenesia per più di 300 metri, sul pontile di un ristorante chiuso durante l’inverno. Lì la traccia si interrompe e Maimone rabbrividisce. Se le tracce si interrompono all’improvviso, vuol dire che Laganà o è sparito su una barca o è finito in fondo al lago. O entrambe le cose.
Il brigadiere Laganà non si trova, tanto che il 16 gennaio, due giorni dopo la scomparsa del sottufficiale, il Corriere della Sera pubblica nella sua cronaca nazionale un breve articolo dal titolo drammatico:
“RAPITO IL BRIGADIERE SCOMPARSO A CASTELGANDOLFO?”.
Perché ormai è chiaro che non si può trattare di un incidente. Per quanto i boschi ed i macchioni lungo le rive del Lago di Castelgandolfo possano essere folti, non sono certo le foreste del Borneo. Il brigadiere Mario Laganà sarebbe certo saltato fuori, in un modo o nell’altro.
La stessa mattina del 16 tre pescatori arrivati da Roma per trascorrere una tranquilla giornata alla pesca di trote e carpe hanno la sgradita sorpresa di vedere un corpo galleggiare presso la riva e, in preda al terrore, fermano una pattuglia della Polizia che avevano appena incrociato.
Il brigadiere Mario Laganà è stato ritrovato.
Il sottufficiale di Polizia è stato ammazzato.
Quello che si legge sui giornali del tempo fa paura.
Il brigadiere è stato torturato ferocemente prima di essere ucciso.
Non ci dilungheremo nei particolari (lo fanno fin troppo i giornali dell’epoca) ma la descrizione fa presumere ad una brutalità sadica.
La giacca a vento del poliziotto è stata rivoltata all’indietro, per bloccare le braccia, i polsi sono legati da una cinghia collegata ad un filo di ferro che lega gambe e piedi e a sua volta qui c’è una cordicella che termina con un cappio al quale probabilmente era legato un grosso sasso.
Quello che ha fatto sprofondare Mario Laganà, gravemente ferito ma ancora vivo, nelle nere acque del lago di Castelgandolfo. Probabilmente da quel pontile individuato dai cani di Maimone.
Nei giorni successivi il fucile da caccia del brigadiere viene ritrovato. Gli assassini lo hanno fatto a pezzi e gettato in acqua.
Cosa può essere successo? Per il momento l’ipotesi più ovvia è che il brigadiere sia stato sorpreso mentre era alla posta, disarmato (i due colpi di fucili uditi da Venturini e da almeno un altro testimone: il brigadiere Laganà stava sparando ad una preda o stava cercando di difendersi dai suoi aggressori?), legato, picchiato quindi torturato ed infine trascinato sul pontile dove è stato fatto salire su una barca per un ultimo tragico viaggio oppure gettato direttamente in acqua.
Ma chi sono gli assassini? Perché è ovvio che non ce ne fosse uno solo. Gli investigatori della Squadra Mobile di Roma sono certi che siano stati almeno in due, prima a sopraffare il poliziotto e poi a ucciderlo.
Per pochi istanti si pensa a dei bracconieri sorpresi dal comandante degli agenti di Castelgandolfo. Ma no…certo, esistono alcuni cacciatori di frodo capaci di sparare contro gli agenti che li sorprendono, però lo fanno subito, nel tentativo di sfuggire all’arresto. Poi stiamo parlando dei bracconieri del Lago di Castelgandolfo e non di Mick Taylor, il cacciatore e serial killer psicopatico della saga cinematografica horror australiana “Wolf Creek”.
Una sadica ferocia come quella dimostrata contro il brigadiere Mario Laganà non è da loro.
Una vendetta? Questo è molto più probabile. Ma perchè?
Il brigadiere Mario Laganà ha alle spalle una buona carriera, anche se non eccezionale.
41 anni, calabrese, ha trascorso i primi anni di servizio in Sicilia. Alla fine degli anni ’40 era uno delle migliaia di poliziotti e carabinieri che buttavano sudore e sangue alla caccia del bandito Giuliano e della sua banda sulle montagne della Sicilia Occidentale.
Improbabile che i superstiti dell’EVIS e della gang di Giuliano abbiano deciso di vendicarsi di un sottufficiale di mezza età che da ragazzino, infagottato in una divisa più grande di lui, era uno dei tanti che batteva le pietraie tra le province di Palermo e Trapani alla caccia di un inafferrabile bandito.
Gli ultimi arresti che ha fatto a Castelgandolfo sono quelli di due giovani ubriachi che si sono presi tra loro a bottigliate qualche giorno prima, ma si trovano ancora a Regina Coeli ed una vendetta da parte delle famiglie è certo improbabile.
Si pensa a qualcosa nella sua vita privata. Ma chi è Mario Laganà? Il poliziotto è arrivato in provincia di Roma alla fine degli anni ’50 e da allora ha trascorso una buona carriera, venendo apprezzato dai superiori che hanno deciso di affidargli il comando del Posto di Polizia di Castelgandolfo, ovvero del paese sui Colli Albani dove si trova la residenza estiva del Papa. Mario Laganà forse è l’uomo giusto per un incarico tranquillo e insieme prestigioso.
Diploma magistrale, iscritto all’Università, appassionato di musica e pittura.
Sicuramente non si metterà a discutere di San Tommaso d’Aquino con papa Paolo VI, ma di certo saprà trattare con i prelati di Castelgandolfo facendo fare bella figura all’Amministrazione ed al Corpo.
I giornali del tempo, sorpresi dall’esistenza di un sottufficiale di Polizia che ama dipingere e suonare il pianoforte e quindi capace di andare un po’ più in là dello stereotipo del poliziotto che non sa fare la canonica O con un bicchiere, parleranno di una “singolare personalità” (boh! NDR).
E’ più interessante che la stampa lo definisca “ricco”, perché in effetti Mario Laganà ha un po’ di quattrini.
Potrebbe essere la ragione del delitto? Beh, il brigadiere assassinato aveva ereditato da qualche tempo una cospicua somma di denaro ed altrettanto era successo alla moglie, ma non è che fosse poi questo gran patrimonio. Si tratta di una quindicina di milioni di lire (circa 148.000 euro al cambio attuale), forse raddoppiati con una serie di investimenti oculati, ma nulla di più.
Ritorniamo per un momento al ruolo istituzionale del brigadiere Laganà.
Escluso il periodo “siciliano” il sottufficiale ha trascorso la maggior parte della propria carriera nel Lazio… e qui salta fuori un particolare interessante.
Nel 1965 il brigadiere Laganà, tra le altre cose, era incaricato di sorvegliare e riparare il ripetitore della Polizia impiantato nel convento dei frati cappuccini di Albano Laziale. Laganà capitava quindi abbastanza sovente nelle pertinenze del luogo sacro per controllare l’installazione.
In quello stesso anno il convento viene scosso da uno scandalo, quando a seguito di un banale incidente stradale si scopre che il seminterrato del monastero viene usato nottetempo dai contrabbandieri di sigarette come deposito per tonnellate di tabacchi rubati dai vagoni merci svaligiati grazie alla complicità di ferrovieri corrotti. Nei guai finiscono anche alcuni frati, che vengono processati e condannati. Il brigadiere Laganà viene chiamato a testimoniare e nella sua deposizione evidenzia la scaltrezza dei contrabbandieri che, con la complicità dei religiosi hanno trasformato il luogo sacro in un impenetrabile deposito di merce ricettata, senza far trapelare nulla all’esterno. L’iter giudiziario terminerà qualche anno dopo con una serie di condanne e il caso dei “tabacchi in convento” finirà per diventare oggetto di battute anticlericali nei bar dei Castelli Romani.
Dopo il delitto alcuni giornali parlano di prestiti di diversi milioni accordati dal brigadiere Laganà ad uno dei frati coinvolti nell’inchiesta, circostanza smentita sia dagli avvocati della famiglia Laganà che dal frate e infine da magistratura e Guardia di Finanza.
Se non ci fosse di mezzo l’atroce morte di un essere umano ci sarebbe da ridere alla chiusura dell’articolo dell’Unità del 24 gennaio 1967 che, prendendo atto della smentita conclude con “…il che non esclude ovviamente che altri frati contrabbandieri abbiano firmato cambiali e ricevuto prestiti dal brigadiere”.
“…Ovviamente…”
Peccato che alla fine dell’inchiesta la Finanza sarà chiara: a parte la stratosferica eredità dei famosi quindici milioni (altro che i 100 blaterati dalla stampa!), il brigadiere Laganà vive nell’alloggio di servizio di Castelgandolfo e viaggia su una scassata vecchia Mercedes.
Un po’ poco per insinuare che Laganà fosse uno sbirro marcio.
Ma allora, chi?
I giornali, come il Corriere della Sera del 18 gennaio 1967, riportano le ipotesi dei familiari su delle indagini che Laganà stava seguendo. Indagini ancora vaghe, sulle quali non aveva fatto parola né con i superiori e la magistratura né con i familiari. Ma su cosa indagava il brigadiere? Il Corriere ipotizza che si possa trattare di spaccio di stupefacenti o di sigarette. Non deve impressionare che si parli di traffico di droga. E’ proprio in quegli anni che eroina e cocaina iniziano ad uscire dalla loro nicchia borghese per entrare lentamente nel resto del Paese. E’ possibile che Laganà si sia imbattuto in uno di quei primi tentacoli che nel corso dei cinquant’anni successivi travolgeranno la società?
Per un criminale sarebbe un “buon” motivo per uccidere un poliziotto troppo curioso.
Ma perché viene torturato Laganà? Si tratta solo di sadismo da parte di un criminale psicopatico che odia gli sbirri o è anche un feroce interrogatorio per ottenere risposte, per conoscere che cosa sa il poliziotto?
E ancora… Laganà era sul Lago per una battuta di caccia o aveva finto di andare per tordi allo scopo di poter incontrare un informatore e, in questo caso, è stato preso in trappola?.
Ma c’è anche qualcos’altro. Qualcosa di altrettanto malvagio che si muove sulle rive del Lago di Castelgandolfo, come gli antichi mostri acquatici delle leggende.
Nel 1965 qualcuno ha ucciso durante una rapina (se è stata una rapina) due fidanzati che si erano appartati in auto nella zona dei Pratoni del Vivaro, proprio nei pressi del lago e del punto dove Laganà è stato sequestrato e tuttora ci sono segnalazioni di aggressioni e rapine ai danni di altre coppiette. Il duplice omicidio è tuttora insoluto, ma è avvenuto nella giurisdizione di Laganà, che ha collaborato all’inchiesta.
Il 10 luglio del 1955, quando Laganà si trova ancora in Sicilia, sulla riva del lago viene ritrovato un altro corpo, quello di Antonietta Longo, una ragazza siciliana di 30 anni che lavora come cameriera presso una famiglia di Roma. Nell’ultima lettera che ha mandato alla famiglia annuncia ai genitori di essere innamorata di un brav’uomo di nome “Antonio” e che presto regalerà loro un nipotino. Quando la ritroveranno nuda, decapitata e trafitta da ben 13 coltellate, il nipote riuscirà ad identificarla solo dall’orologio che lui le aveva regalato e che l’assassino ha dimenticato di toglierle dal polso. La Polizia, come si suol dire, brancola nel buio. Arresta prima i due che hanno rinvenuto il corpo e che, in preda al panico, hanno atteso due giorni prima di avvisare le autorità. I due vengono scarcerati quanto il P.M. si rende conto di avere a che fare con due ragazzotti ingenui che, alla vista del cadavere, se l’erano fatta addosso per la paura. Nei giorni successivi la Squadra Mobile arresterà altre quattro o cinque persone, sospettate per il delitto e che verranno scarcerate quando ci si renderà conto che non sono coinvolte nell’omicidio. Tra loro il titolare di un ristorante del lungolago, presso il quale è stato ritrovato il corpo e che si ucciderà poco tempo dopo, ufficialmente per problemi finanziari. Gli viene attribuita una frase che, a rileggerla oggi, fa paura
“Non si resiste qui. E’ un posto maledetto”
Muore in un incidente anche uno degli arrestati all’epoca del delitto Longo, un barcaiolo che affoga nel lago.
I quotidiani dell’epoca parlano della “Decapitata di Castelgandolfo” come una nota di colore, per enfatizzare l’atmosfera di mistero che aleggia sul lago.
Il pronipote di Antonietta Longo, intervistato il 17 febbraio 2020 dall’edizione romana del Corriere della Sera, ritiene probabile che la prozia sia morta per un aborto clandestino andato male ( e le 13 coltellate? Ndr) ma ipotizza anche una violenza sessuale subita dalla familiare, forse sul posto di lavoro e che il tutto sia stato coperto da un’inchiesta frettolosa. E che dire dallo spaventato ristoratore presso il cui locale è stato trovato il corpo mutilato della povera Antonietta e che si toglie la vita (ufficialmente) per motivi finanziari? Era certamente innocente del delitto, non c’è dubbio. Colpisce però la singolarità che è dal pontile del suo ex ristorante che dodici anni dopo il brigadiere Laganà raggiungerà l’oscurità del lago. Va bene che il lago di Castel Gandolfo non è certo il vastissimo lago Vittoria e in poche decine di minuti lo si può percorrere lungo le sue sponde, ma la coincidenza appare davvero sorprendente.
E’ possibile che il brigadiere Mario Laganà sia venuto a conoscere qualche particolare sull’omicidio di Antonietta e sull’assassinio dei fidanzati? Certo, lui non era ancora a Castel Gandolfo, all’epoca dei fatti, ma è altrettanto possibile che attraverso voci e confidenze in paese sia venuto a sapere qualcosa sul delitto e che qualcuno abbia deciso di bloccare il poliziotto prima che facesse un altro passo avanti.
Nel frattempo le indagini sull’omicidio di Laganà procedono verso il declino. Vengono sottoposte a fermo numerose persone, tutte rilasciate nel giro di pochi giorni e dalla mala dei Castelli Romani non giungono informazioni. Del resto, se sapessero chi sono gli assassini di Laganà li consegnerebbero senza problemi agli sbirri, non fosse altro per acquistare crediti con le autorità. Ma nulla nemmeno da loro…
Nel 1968 sembra che il caso venga riaperto, di fronte ad alcune nuove informazioni, ma è solo una falsa speranza.
Il caso viene definitivamente archiviato e oggi il faldone dell’inchiesta si è ormai ricoperto di strati di polvere negli archivi della Procura di Roma.
L’omicidio del brigadiere Mario Laganà è tuttora insoluto. Dopo quasi sessant’anni non un solo indizio ha permesso di fare luce, almeno parzialmente, su quello che è con ogni probabilità l’omicidio più feroce e insieme il più misterioso di un appartenente alla Polizia di Stato avvenuto nel Dopoguerra.
E’ inutile chiedersi se gli assassini di Mario Laganà siano ancora in vita. Ogni possibilità di catturarli è scomparsa quando le acque del lago di Castelgandolfo si sono chiuse sul sottufficiale, in quel buio e freddo tardo pomeriggio di gennaio.
Hanno vinto.
(per la redazione di Cadutipolizia.it, Fabrizio Gregorutti)
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Fonti consultate: quotidiani “Corriere della Sera”, “Unità” e “Stampa” del 14 gennaio 1967 e successivi, edizione romana del “Corriere della Sera” del 17 febbraio 2020.
R. I. P. 🌹
Tre piccole aggiunte (1) in relazione all’omicidio di Antonietta Longo un funzionario della Mobile dell’epoca (il dottor Ugo Macera?) parecchi anni fà aveva dichiarato che il sospetto responsabile dell’omicidio era stato individuato ma che il magistrato competente non aveva autorizzato l’arresto del soggetto perché riteneva insufficenti gli indizi raccolti. A quanto pare si trattava di un signore romano che aveva una certa pratica nel sezionare animali (macellaio? norcino?). (2) molti anni dopo il lago ha restituito un cranio ma dopo approfonditi esami non è risultatto quello della Longo ma forse quello di altra persona rimasta vittima di un incidente aereo sul lago di Albano. (3) Sicuramente i 15 milioni ( se tali erano) indicati come patrimonio del brigadiere Laganà sono stati di origine lecita, ma in quell’anno la famiglia di mio padre aveva venduto ad un noto costruttore romano un terreno edificabile a Roma – Torrino /via Beata Vergine del Carmelo per circa 36milioni di lire/ettaro. Sempre lo stesso anno mio padre aveva acquistato un appartamento in una zona residenziale di Roma, a ridosso del centro storico con vista sul parco dell’Appia Antica, di nuova costruzione. 180 metri quadri commerciali per poco meno di 17,9 milioni di lire. Quindi se ragguagliati ai valori immobiliari i 15 milioni di allora sfiorano i 500 mila euro di oggi.
Mi scuso di un errore,,, i 500 mila eruo ai quali mi rifersico non sono il frutto di una rivalutzione monetaria ma quello di un investimento immobiliare che all’epoca poreve essere fatto tenuto fermo il capitale per anni. Comunque per raffronto allora una Fiat 124 costava un milione di lire e un agente di PS forse ne guadagnava un pò più di cento mila lire al mese.