LA MORTE PERDUTA DELLA GUARDIA GIANATIEMPO (Napoli, 1911)
LA MORTE PERDUTA DELLA GUARDIA GIANATIEMPO
(Napoli, 30 aprile 1911)
“Una luce scialba, venendo di fuori, mandò un raggio su quel letto: e su questo, spogliato, rubato, solo, trascurato, senza pianto, giaceva il corpo di quell’uomo.”
Charles Dickens, “Canto di Natale”
Guardie di Città, inizio XX Secolo
In un altro articolo (“I panni sporchi- l’amaro caso della Guardia Giovanni Pasqualoni, assassinata da una circolare”) abbiamo raccontato della tragedia del Corpo delle Guardie di Città cioè della Polizia italiana tra il 1890 ed il 1919.
Un Corpo schiacciato da una disciplina oppressiva quando non brutale, da una gerarchia insensibile e in troppi casi non adeguata ai propri compiti, da un feroce “mobbing” ed infine tormentato da una sconvolgente epidemia di suicidi.
In quello (il lettore ci perdoni l’autocitazione) ci chiedevamo:
Certo, la disciplina è dura, lo stipendio di una guardia non è esaltante, gli orari di servizio sono pesanti, la lontananza da casa si fa sentire in un’epoca in cui i collegamenti epistolari sono affidati alle Regie Poste e i collegamenti ferroviari sono obiettivamente complicati.
Ma basta questo per spiegare le ragioni di quella che appare essere un’emergenza?
No, sicuramente non basta per spiegare le ragioni dell’epidemia di suicidi nel Corpo come certamente non basta per spiegare il declino delle Guardie di Città all’inizio del 1900, un declino tale che portò alle prime proteste ed alla prime riunioni non autorizzate (immediatamente stroncate a suon di licenziamenti e punizioni disciplinari) ed infine alla riforma Corradini del 1919 ovvero lo scioglimento delle Guardie di Città e alla nascita della Regia Guardia e degli Agenti Investigativi.
In questa atmosfera, ciò che accadde dopo la morte della guardia Amilcare Gianatiempo è un sintomo della degenerazione e della inevitabile fine del Corpo delle Guardie di Città.
PRIMA
Torre del Greco, 23 aprile 1911
Torre del Greco, opera di Karl Kaufmann, 1894
(da wikipedia)
La guardia di città Amilcare Gianatiempo è nata 25 anni prima a Messina dove sua madre, Dolores Cantello, è proprietaria di un piccolo teatro.
Non è difficile immaginare Amilcare bambino, mentre alza il sipario della scena, fa le pulizie ed assiste agli spettacoli di varietà e ai drammi e alle commedie, affascinato dallo spettacolo e, chissà, anche dalle bellissime ballerine e dalle attrici che ogni tanto gli regalano un sorriso e una carezza.
Ma il teatro della signora Dolores non è certo il bel Teatro Vittorio Emanuele II, il ritrovo della buona società messinese e, oggi come allora, il mondo dell’arte non permette sempre di mangiare tutti i giorni Probabilmente è per questo che Amilcare si arruola nel Corpo delle Guardie di Città, venendo destinato alla Regia Questura di Napoli, Brigata di Torre del Greco.
Non è una destinazione di tutto riposo, ma il giovane poliziotto presto si distingue tra gli altri per bravura e professionalità. E’ l’inizio di quella che potrà essere una bella carriera.
Ma è a questo punto che sulla vita della guardia Amilcare Gianatiempo si abbatte la tragedia.
La notte del 28 dicembre 1908 un cataclisma spazza via le città di Messina e di Reggio Calabria: prima un devastante terremoto devasta i due lati dello Stretto e poi, pochi minuti dopo, uno tsunami termina la spaventosa opera. E’ la prima vera tragedia nazionale, una catastrofe che sconvolge l’Italia.
Muoiono circa 80.000 persone e tra questi i fratelli di Amilcare il quale, per tre mesi, è convinto di avere perduto anche la madre, ritrovata poi a Catania, dove si è rifugiata.
Immagine di Messina dopo il cataclisma del 28 dicembre 1908
La vita sembra riprendere per la guardia Gianatiempo, che torna a caccia della criminalità e della camorra di Torre del Greco.
Le cose stanno però cambiando.
Da tempo i giornali italiani sono pieni di racconti sul primo maxi processo alla Camorra, il cosiddetto “processo Cuocolo”, forse il primo processo “mediatico” del nostro Paese.
Gennaro Cuocolo e la moglie Maria Cutinelli sono due criminali di mezza tacca legati alla Camorra o, come si diceva allora, alla Bella Società Riformata, uccisi a coltellate nel 1906 in due distinti agguati avvenuti rispettivamente a Torre del Greco ed a Napoli.
Da questo delitto è partita un’inchiesta, affidata prima alla Questura e poi ai Reali Carabinieri e che ha portato, anche “grazie” ad alcuni camorristi “pentiti” (diciamo pure così) e all’uso di metodi di indagine discutibili anche per l’epoca, ad arrestare i capi della Bella Società ed svelare le trame dell’organizzazione criminale nel capoluogo campano, compresi i legami tra politica, istituzioni (magistratura e polizia compresi) e criminali. Per la Regia Questura i sospetti sono pesantissimi: parecchi poliziotti finiranno sotto inchiesta per corruzione e, anche se la maggior parte di loro verrà assolta in un altro dibattimento, rimarrà su di loro un terribile marchio d’infamia.
Il dibattimento, svoltosi per “legittima suspicione” a Viterbo e seguitissimo dalla stampa italiana ed europea, sarà il primo grave colpo sferrato dallo Stato italiano alla Camorra e si concluderà nel 1912 con pesantissime condanne per la maggior parte dei 30 imputati.
Nel frattempo nella criminalità napoletana si è creato un inevitabile vuoto di potere che alcune figure di seconda o terza fila della Bella Società cercano di riempire, scalzando i capi ormai in galera.
Gli imputati del Processo Cuocolo
(da Wikimafia)
DURANTE
Uno di questi probabilmente è un criminale di cui non faremo il nome e che il quotidiano “il Mattino” del 24 aprile 1911 definirà “temibile pregiudicato ed ammonito di Torre del Greco”.
Abbiamo cercato sulla cronaca dell’epoca qualche informazione in più su di lui, ma senza esito.
L’ipotesi più ragionevole è che si tratti di una di quelle figure delle quali abbiamo accennato più sopra, un criminale di infimo ordine la cui unica “dote” (se così si può chiamare) è la violenza e che, prima del processo Cuocolo, era poco meno di una comparsa sul palcoscenico della malavita torrese ma che ora è ansioso di farsi un nome in città sfidando gli sbirri.
Il mattino del 23 aprile il “Temibile pregiudicato” aggredisce un agente di ronda a Torre del Greco, minacciandolo con una rivoltella. Il poliziotto riesce fortunosamente a raggiungere la Brigata di Pubblica Sicurezza ed a chiedere il soccorso degli altri colleghi che partono in forze per arrestare il balordo.
Quest’ultimo li sta però attendendo in una casa della periferia di Torre del Greco, armato con una rivoltella e un randello e, per soprammercato, con un grosso “cane da presa” accanto, deciso a opporre resistenza alla Polizia. Ed è quello che fa, non appena arrivano le guardie, scatenando il cane contro di loro ed aprendo il fuoco contro la guardia Gianatiempo che sta tentando di bloccarlo e che crolla a terra, colpito al ginocchio sinistro.
Dalle case circostanti qualcuno dà manforte all’aspirante boss, sparando a sua volta contro gli agenti i quali rispondono al fuoco, ferendo con un colpo di pistola il criminale, il quale viene arrestato, mentre i suoi complici scompaiono tra le case della periferia torrese.
I sogni di gloria del Temibile Pregiudicato e aspirante boss terminano così prima in ospedale e poi a Poggioreale.
Quando Amilcare raggiunge l’ospedale dei Pellegrini di Napoli le sue condizioni sono gravissime.
Il proiettile gli ha frantumato la rotula sinistra ed ha reciso un’arteria, provocando una vasta emorragia.
C’è di peggio: la ferita è degenerata in un’infezione che si sta rapidamente diffondendo e la cancrena, in quell’epoca ancora lontana dalla scoperta della penicillina, non lascia scampo.
I medici fanno quello che possono, ma si rendono conto che la situazione è disperata: a tenere ancora in vita la guardia Amilcare Gianatiempo sono solo la sua giovane età e la sua forte fibra.
Se ne rende conto lo stesso Amilcare, che negli sprazzi di lucidità sempre più rari, implora i propri superiori di cercare sua madre, perché sia accanto a lui negli ultimi istanti.
In effetti la Regia Questura di Napoli si dà da fare per accontentare la guardia Gianatiempo.
Almeno speriamo.
Cerca la signora Dolores per giorni interi tra Bari, dove la donna vive con suo fratello, e la Sicilia, ma inutilmente. I terremotati di Messina sono dei profughi all’interno del loro stesso Paese e dopo tre anni dalla catastrofe l’anagrafe è ancora nel caos.
Il direttore dell’ospedale Pellegrini, professor Sorrentino, visita Amilcare nelle prime ore del mattino del 30 aprile e comprende che non c’è nulla da fare.
Poco dopo il reverendo Barile, cappellano dell’ospedale, impartisce l’Estrema Unzione ad Amilcare che alle 10 del mattino entra in agonia, nonostante i disperati tentativi di salvarlo da parte dei suoi medici, il professor Stinelli e l’aiuto Francesco Perez, dei quali ci piace ricordare i nomi perché, insieme al direttore dell’ospedale e al cappellano e sicuramente al brigadiere di PS Castaldo ed altri colleghi, dei quali purtroppo non è conservato il nome, furono gli unici a non lasciare solo Amilcare.
Vogliamo illuderci che prima di scivolare nell’oscurità chi era accanto a lui gli abbia mentito, dicendogli che sua mamma era in arrivo, che era al porto, che era in Stazione, che si trovava nell’atrio dell’ospedale, regalandogli così l’ultimo briciolo di speranza prima dell’inevitabile.
La guardia di città Amilcare Gianatiempo muore alle 10 e 40 del mattino del 30 aprile.
Quello stesso giorno la Regia Questura di Napoli riesce a rintracciare la madre di Amilcare a Catania, dove si è trasferita da qualche settimana.
A quel tempo non è consuetudine inviare un paio di sottufficiali della questura ad informare i familiari della perdita del loro caro, per sancire la vicinanza del Corpo e dell’Amministrazione di P.S. al loro dolore e per dire, con parecchia retorica, che la loro sofferenza è quella di tutta la Polizia e di ogni Poliziotto.
Basta un semplice telegramma, come quello che viene consegnato alla signora Dolores e che il “Mattino” del 2 maggio 1911 definisce “laconico”.
Non crediamo di voler sapere quali fossero le esatte parole scritte su quel messaggio.
Il brigadiere Castaldo informa della morte della guardia Gianatiempo il commissariato di PS di Montecalvario, competente per la zona dei Pellegrini, il cui delegato dà le prime “disposizioni” (quali, non è dato sapere) mentre la direzione dell’ospedale fa trasportare il corpo di Amilcare in una stanzetta attigua al posto di polizia dei Pellegrini, in attesa dell’installazione della camera ardente e delle esequie del poliziotto.
Beh…come poliziotti, anche a distanza di oltre un secolo, siamo imbarazzati da quello che accade dopo.
Perché non accade nulla, assolutamente nulla.
DOPO
Per ore il corpo di un ragazzo di 25 anni, di un poliziotto ferito nell’adempimento del proprio dovere e morto dopo atroci sofferenze, rimane steso su una branda in una piccola stanza disadorna e poi, visto che dalla Questura non giungono notizie, per ovvi motivi decide di spostarlo nelle celle mortuarie.
La direzione dell’ospedale decide di chiamare la Questura, per sapere che cosa intende fare di quel loro poliziotto che in quel momento si trova all’obitorio. E qui si arriva al grottesco, perché le risposte sono evasive e scocciate in nome dell’immortale principio del “non mi compete”.
Il Mattino del 2 maggio 1911 definirà questa situazione con un eufemismo: “riprovevole negligenza” e non ci sentiamo di contraddirlo.
Dev’essere comunque una costante dell’epoca. Infatti sulla stessa pagina del 2 maggio 1911 che riporta le notizie della morte di Amilcare Gianatiempo, un altro articolo della cronaca locale de il Mattino racconta del decesso, avvenuto per malore, di una signora che viaggiava su una carrozza e il cui corpo è rimasto per ben quindici ore a bordo della vettura, perché il vicepretore si è rifiutato di recarsi sul posto per la constatazione di rito (del resto è domenica, che fretta c’è?) e nessuno se l’ è sentita di scavalcarlo e di chiamare il pretore. Così, sino al mattino successivo, a piantonare il corpo della povera signora è rimasto un appuntato di P.S. che si è sorbito impotente ed imbarazzato gli insulti e le proteste dei familiari della donna e dei passanti indignati.
Prima increduli, poi sempre più arrabbiati, i responsabili della direzione dell’ospedale tempestano di telefonate Questura e Comando delle Guardie di Città, fino a che un esasperato maggiore del Corpo decide di mandare al Pellegrini il maresciallo Eduardo Flaccomio, per dare una calmata a quei rompiscatole dell’ospedale.
E’ la scelta migliore che il buon maggiore potesse fare. Sulle annate del “Bollettino del Personale del Ministero dell’Interno” tra il 1900 ed il 1915 abbiamo contato almeno una mezza dozzina di encomi attribuiti al maresciallo Flaccomio e sicuramente ce ne sono sfuggiti altrettanti.
In un’epoca come quella, gli encomi del sottufficiale sono una garanzia di un buon uno sbirro da strada e di un uomo rispettato dai propri superiori e dal personale alle sue dipendenze.
Non sappiamo se Flaccomio conoscesse personalmente Amilcare, ma siamo certi che la reazione del maresciallo, nel vedere il corpo della guardia steso sulla lastra di marmo della camera mortuaria, sia stata quella che avremmo avuto noi.
Quello che sappiamo è che Flaccomio, dopo avere visto il corpo del giovane collega, si è attaccato al telefono dell’ospedale ed ha detto (stavamo per scrivere “ha ringhiato”) al suo maggiore del dovere di rendere onore ad Amilcare e della necessità di rimediare alla figura di palta fatta dalla Polizia nei confronti del Caduto.
Flaccomio organizza rapidamente una camera ardente come si deve: tendaggi neri con frange d’argento, grossi candelabri che circondano il catafalco dove è stata deposta la guardia Amilcare Gianatiempo, vestita nell’impeccabile uniforme delle Guardie di Città che lui (lui) ha onorato fino all’ultimo istante.
La stanza viene riempita dalle corone di fiori inviate dalla Questura, da ogni singola Brigata di PS cittadina e della provincia e dagli ufficiali del Corpo.
Di questi ultimi però, nessuno si fa vedere alla camera ardente… sicuramente hanno di meglio da fare che rendere omaggio ad un loro poliziotto morto ammazzato.
Il comportamento dei superiori provoca però molti commenti feroci da parte delle centinaia di sottufficiali e guardie che quel pomeriggio si recano al Pellegrini a rendere omaggio ad Amilcare, commenti che l’attento cronista del Mattino ascolta ed appunta sul proprio libretto.
Il giorno dopo tutto è pronto per le esequie di Amilcare.
Manca qualcosa…ah, sì! Madonna! Manca la mamma della guardia Gianatiempo!
Ci auguriamo che qualcuno delle questure di Catania e Messina abbia aiutato la signora Dolores a raggiungere il piroscafo per Napoli e probabilmente è così, dato che la mamma di Amilcare si è imbarcata verso sera ed è partita, anche se la nave ha lasciato la città con un ritardo terribile.
Non possiamo nemmeno immaginare i sentimenti di una persona che ha perduto tutto, che ha subito la tragedia inconcepibile di sopravvivere a tutti i suoi figli. Sicuramente c’è la speranza di rivedere il suo ultimo ragazzo, prima che venga chiusa la bara. Il tempo di posare un bacio sulla fronte del figlio, di deporgli tra le mani un rosario e di pregare davanti a lui.
Perché l’aspetteranno. Non possono non aspettarla.
“Non possiamo aspettarla”
Queste devono essere state le parole del Maggiore o chi per lui quando qualcuno, forse il maresciallo Flaccomio, ha chiesto di attendere l’arrivo della madre di Amilcare. Si sa che la nave da Messina è in ritardo, cosa costano qualche decina di minuti in più?
Il Maggiore o chi per lui risponde picche.
Del resto non hanno mica il tempo di attendere i comodi della signora. Che si faccia ‘sto funerale e leviamoci il pensiero, perché poi al Cimitero Nuovo ci sono il medico legale che deve fare l’autopsia e il PM che deve assistervi e nessuno in Questura ha voglia di fare inquietare il sostituto procuratore del Re.
Il cappellano dell’ospedale benedice la salma, quindi quattro guardie di città depongono il corpo di Amilcare nella bara, dopodiché il comandante delle Guardie fa un breve pistolotto patriottico, quindi si può partire. Il carro funebre che trasporta la guardia di città Amilcare verso il suo ultimo riposo parte, preceduto da due plotoni di guardie inquadrate, mentre alcuni sottufficiali del Corpo lo circondano.
Il cronista del Mattino annota amareggiato che le esequie risultano modeste per “un’inesplicabile incuria del comando” (testuale) ma aggiunge che hanno avuto “uno aspetto imponente per il concorso di popolo”. Non abbiamo dubbi sulla veridicità di entrambe le affermazioni, perché nel primo caso è l’ennesima conferma del pressapochismo dimostrato dal Comando dall’inizio della vicenda, mentre nel secondo è la dimostrazione, se mai ve ne fosse bisogno, del grande cuore di Napoli e dei napoletani.
Il corteo, che si ingrandisce sempre di più, percorre le strade della città sino a che un urlo terribile lo ferma.
“FIGLIO MIO! FIGLIO MIO!”
E’ la signora Dolores, che è stata trasportata fin lì da una vettura a nolo, il cui cocchiere ha dato fondo alle energie dei suoi cavalli e se ne è fregato del traffico e dei regolamenti stradali per poter portare la signora da suo figlio.
La mamma del poliziotto scende dalla vettura di piazza e corre verso il nero carro funebre, abbracciando la cassa e sussurrando con dolcezza qualcosa al ragazzo chiuso lì dentro.
Tutti, civili e poliziotti, si bloccano commossi. Anche i comandanti delle guardie, anche i funzionari della Regia Questura. poi il maresciallo Eduardo Flaccomio si china sulla donna e con molto garbo e rispetto la solleva dalla bara, invitandola a seguire il carro funebre.
Il corteo riprende ed arriva al Cimitero Nuovo ed allora che si sente la voce della signora Dolores, sommessa ed insieme dirompente
“Ma ora me lo faranno vedere?”
No.
Non accadrà.
La grottesca storia di ciò che accadde dopo la morte della guardia Amilcare Gianatiempo è stata da noi ricostruita sulla base delle cronache del Mattino, che seguì la vicenda e di altri quotidiani dell’epoca.
Le uniche cose che abbiamo aggiunto di nostra iniziativa sono state alcune frasi, plausibili nella circostanza.
Alcune tranne una: l’urlo di Dolores Cantello.
Non si può inventare un dolore del genere.
Fonti principali: “Il Mattino” del 24-25 aprile e del 2 maggio 1911
“Corriere della Sera” “L’Ora” e “la Stampa” (sul caso Cuocolo)
Bollettino del personale del ministero dell’Interno, dal 1900 al 1915.
Charles Dickens, “A Christmas Carol”