Briganti e accoltellatori in Romagna: una brutta storia di omicidi
Briganti e accoltellatori in Romagna, una brutta storia di omicidi.
di Massimo Gay
Non avrei immaginato che la storia di questa terra, dove ho soggiornato per diversi periodi di vacanza, potesse essere a me sconosciuta a tal punto. Leggendo numerosi testi e esaminando i giornali dell’epoca emerge una regione povera ma molto fiera, che ha sempre rivendicato con estremo compiacimento il proprio passato dal carattere ribelle e sanguinario enfatizzato e personificato in una figura simbolo: il “Passatore”. L’ex traghettatore e brigante Stefano Pelloni il cui viso barbuto, ancora oggi, occhieggia sulle etichette di noti vini romagnoli. Primo, per notorietà, di una serie di malfattori operanti in una regione non certo posizionata a sud, esponente di spicco di quel fenomeno “brigantesco” semisconosciuto in regioni più settentrionali, ma arcinoto in quelle meridionali del quale si è detto e si è scritto notevolmente.
Rispetto al ricordo del bandito eroe, giustiziere dei torti subiti dalla povera gente, resistente contro la tirannide del governo e dei proprietari terrieri, diffuso tra i contadini del sud, quello emiliano-romagnolo ne mutuava solo il carattere della crudeltà, finalizzata al raggiungimento del solo e unico scopo: il denaro.
Uno dei tanti scontri tra guardie di P.S. e briganti
I mezzadri e i contadini, loro obiettivi privilegiati, non importava se ricchi o poveri, ne erano terrorizzati. Il timore di rappresaglie, esercitato nei loro confronti, ne favoriva la latitanza trasformando i malcapitati coltivatori e allevatori, vittime indifese qualora residenti in zone rurali isolate, in manutengoli (sostenitori) o fiancheggiatori.
A questo proposito, è emblematico l’episodio riferito da un giornale ravennate del 28 settembre 1865, dove si narra dell’assalto alla casa di un contadino da parte di una banda di quattro banditi che, non trovando nulla di valore da rubare, gli uccisero un figlio e gliene ferirono altri due.
Le scorrerie sanguinarie poste in essere da bande cospicue di malfattori che invadevano, occupando “manu militari” interi paesi razziandoli dei loro beni, rivivono, ancora oggi, in ballate e racconti orali. A seguito di ciò, per porre al sicuro gli averi della popolazione, si ebbe la tendenza alla proliferazione, come in nessun’altra regione italiana, di banche rurali e locali.
Gli anni che vanno dalla fine del brigantaggio, di pelloniana memoria, all’Unità d’Italia passarono lenti, colmi di sventure e tragiche calamità. Inondazioni e terremoti modificarono l’aspetto del territorio, specialmente quello della bassa ravennate; inoltre epidemie di colera falcidiarono la popolazione.
Ancora una tavola dell’epoca che immortala l’ennesimo scontro tra guardie di P.S. e briganti
Dopo l’Unità d’Italia nulla cambiò, anzi per il popolo le condizioni peggiorarono; i “Piemontesi” portarono nuove tasse e servizio militare obbligatorio, di durata notevole.
La leva obbligatoria istituita, nel 1860, dai Savoia era di otto anni, senza scappatoie se non quella di pagare una cifra molto rilevante. I giovani erano chiamati a servire lo Stato per molto tempo, sottraendo braccia all’agricoltura, all’artigianato e sicuro reddito alle famiglie che si impoverivano sempre di più. Inoltre, nuove tasse reclamavano denaro per l’Erario, depauperato dalle guerre sostenute per unificare l’Italia. Così alcuni, più esasperati di altri si diedero al brigantaggio, altri ancora si costituirono in sette vincolate dalla segretezza e dall’omertà. Una tra le più famose fu quella degli “accoltellatori”, essa aveva connotazione e implicazioni prettamente politiche e, per lungo tempo, terrorizzò la provincia di Ravenna.
Il termine “accoltellatore” era usato a quei tempi, per indicare genericamente tutti gli assassini che in quei luoghi (Romagne) si servivano prevalentemente del coltello o dello stile (stiletto). Col tempo la parola assunse una connotazione particolare, a designazione di omicida per motivi politici: non a caso era spesso abbinata anche alla parola “repubblicano”, usata dal governo monarchico per presentare questi ultimi come assassini sanguinari.
Il banditismo da strada e le sette furono rigogliosi in Romagna in ogni epoca, anche sotto il governo clericale. Già dalla fine del ‘700 il popolo mostrava segni di ribellione nei confronti del clero e dei pochi latifondisti sfruttatori delle povere genti, i quali non si prestavano a reinvestire i propri proventi in miglioramenti dei fondi o delle condizioni di lavoro.
Spesso lo scontro a fuoco si trasformava in drammatico corpo a corpo
Più tardi si era radicato il seme depositato dalla rivoluzione francese; le idee di libertà, di democrazia e giustizia sociale avevano attecchito penetrando profondamente in un ambiente molto sensibile a quegli ideali politici. Le idee rivoluzionarie ribollivano come il vino in fermentazione, lo dimostra il nutrito seguito popolare ricevuto dalle sollevazioni popolari del 1831, del 1843 e del 1845. Neanche lo stato pontificio, sostenuto dalle truppe austriache, e l’invio di vari cardinali, tra i quali il famoso Agostino Rivarola, erano riusciti, nonostante la cruenta repressione, ad addomesticare i rivoltosi carbonari.
Successivamente il territorio delle Romagne alimentò per decenni il volontariato garibaldino e mazziniano. La Romagna, repubblicana e mazziniana seguirà Garibaldi nelle sue spedizioni, anche le antecedenti a quelle che portarono all’unificazione. “L’Eroe dei due Mondi” era considerato colui che armando il braccio avrebbe fatto la rivoluzione. Dire di quella regione che fosse un covo di repubblicani è la pura e semplice verità.
Le popolazioni di quei territori, specialmente quelle delle cittadine portuali dedite a commerci legali, per sopravvivere si davano sovente al contrabbando e, per assicurarsi facilmente l’impunità, cercavano la corruzione dei Pubblici Ufficiali (Guardie Daziarie e di Pubblica Sicurezza). Quelli, tra questi, che non aderivano e si evidenziavano per il troppo zelo venivano prima minacciati, anche per iscritto, se non addirittura uccisi.
Spesso i briganti dovevano essere stanati all’interno dei loro “covi”
In pubblico la gente sfuggiva contatti umani approfonditi con i dipendenti governativi, in particolare poliziotti ed impiegati di Polizia. Considerati come “appestati” venivano isolati dal resto della cittadinanza, soprattutto per il timore che si potesse essere ritenuti dalla pubblica opinione informatori della Polizia e, soprattutto, delle conseguenze che i malviventi potevano infliggere a coloro che li avvicinavano.
I briganti
La presenza di briganti, nel territorio emiliano e romagnolo è attestata da documenti storici almeno fin dal Cinquecento. Sottoposte allo Stato della Chiesa, con parti del territorio controllate da altre entità confinanti (Granducato di Toscana, Legazioni di Bologna e Ferrara, oltre a territori in carico alle odierne Marche), le Romagne videro scorrere un flusso incessante di merci di contrabbando che alimentarono la piccola criminalità locale. Il salto di qualità, da contrabbandiere a brigante, non era scontato, ma la rete di potenziali manutengoli legata al traffico illegale, favorita dalla povertà endemica del territorio, erano fattori che potevano contribuire al proliferare di bande brigantesche, particolarmente attive nei periodi di crisi delle istituzioni. Bande che potevano sfruttare le zone ancora difficili da controllare come: le paludi della Bassa Romagna, i territori montani e quelli di confine tra Stati confinanti, che adottavano legislazioni diverse, dove i briganti potevano fuggire in caso di inseguimenti o rastrellamenti.
Nell’Ottocento i dati sui briganti sono molteplici e contribuiscono a ricostruire un quadro abbastanza preciso, a partire dall’età Napoleonica fino alla progressiva estirpazione del fenomeno, dopo l’Unità d’Italia.
Ecco un elenco, parziale, di alcuni briganti noti, per le loro gesta, a partire dalla fine del Settecento.
Sebastiano Bora detto “Puiena”, attivo tra la Presidenza d’Urbino e la Legazione di Romagna.
Tommaso Rinaldini da Montemaggiore (Urbino) detto “Mason d’la Blona” (Tommaso dell’Isabellona), che succede a “Puiena”, insistendo grosso modo sul suo territorio. Numerosissimi i briganti attivi durante i primi momenti dell’invasione napoleonica. La situazione si stabilizza nel 1802, ma dal 1805 il fenomeno ricompare.
Spicca in questo periodo il brigante trentenne Michele Botti, detto “Falcone”, attivo nelle zone intorno a Bagnacavallo. La sua carriera termina durante lo scontro a fuoco con le forze dell’ordine alle 9,00 del 14 maggio 1810, in Fondo Roncorosso a Bagnara. Dopo la restaurazione il fenomeno, endemico, del brigantaggio prosegue in sordina.
Spostandoci ai confini tra Marche e Romagna troviamo Antonio Cola, soprannominato “Fabrizj”. È il delinquente dalla carriera più lunga tra i briganti che hanno agito anche in territorio romagnolo. La sua zona di azione, tuttavia, andava da Saludecio a S. Giovanni in Marignano, Gallo di Pesaro, Carpegna, Fano; per alcuni anni in Umbria, fino a Gubbio e addirittura a Todi.
Celeberrimo, qualche anno più tardi, Stefano Pelloni, detto “il Passatore”, che venne ucciso il 23 marzo 1851. Gli succedette Giuseppe Afflitti, di Cantalupo di Imola, detto “Lazzarino”.
Gaetano Prosperi di Lognola detto “Lo Spirito”, morto nel 1865, molto noto ancora oggi come “Il brigante del Papa Re”, contestatore della leva, probabilmente di sentimenti clericali.
Luigi Casadio detto “Gaggino”, per via dei suoi capelli rossi, che in camicia rossa e con due crocefissi al collo derubava e uccideva i passanti nelle campagne intorno Ravenna.
Ed ancora, il “Ripa”, l’Altini e il “Maccione”, mentre l’ultimo brigante di un certo rilievo sarà l’Ometto, dopo l’Unità.
Il “passatore” Stefano Pelloni in un disegno dell’epoca
L’ammonizione e il domicilio coatto
Per cercare di arginare il fenomeno del brigantaggio e della delinquenza in genere, furono emanati provvedimenti eccezionali, approvati dal Governo con Legge n. 294 del 6 luglio 1871. Questi erano, tra gli altri, l’ammonizione ed il domicilio coatto. Con tale provvedimento legislativo, furono delineate meglio due figure già presenti nell’ordinamento, dandogli valenza giuridica: l’oziosità e il vagabondaggio.
L’ammonizione si applicava a seguito della denuncia scritta dell’autorità di P.S., “…ovvero anche senza denuncia in seguito della pubblica voce o notorietà…”.
Il magistrato poteva chiamare a se il vagabondo o l’ozioso e con lo spauracchio dell’arresto, da tre a sei mesi, se non avesse obbedito, lo ammoniva a darsi immediatamente a stabile lavoro e, nel contempo, lo obbligava a non allontanarsi dalla località di dimora senza comunicazione all’autorità di Pubblica Sicurezza. Se non cambiava atteggiamento il magistrato gli comminava l’ammonizione.
Per realizzarsi l’oziosità dovevano concorrere tre elementi, cioè che l’imputato fosse:
– Sano e robusto, abile al lavoro.
– Non provveduto di sufficienti mezzi di sussistenza, non in grado di vivere senza lavorare.
– Non dato a stabile lavoro, dal quale possa ricavare i mezzi di sussistenza.
Realizzandosi queste tre circostanze l’imputato era legalmente ozioso, e si presumeva che vivesse di mezzi illeciti, “…cioè coi proventi del giuoco o del lenocinio o della frode o del furto, e quindi lo annovera fra le persone pericolose per la Sicurezza Pubblica o lo punisce coll’ammonizione”.
A costituire il vagabondaggio dovevano concorrere tre elementi, cioè che l’imputato fosse:
– Senza domicilio certo, vale a dire senza un’abitazione nella quale abitualmente dimori, perché non basta che abbia un domicilio legale, o una casa in cui non abiti.
– Senza mezzi di sussistenza, non in grado di vivere senza lavorare.
– Senza l’esercizio abituale di un lavoro realmente sufficiente a procurargli i mezzi di sussistenza.
Concorrendo questi tre elementi l’imputato era legalmente vagabondo, quindi: “…la Legge presume che, come l’ozioso, viva di mezzi illeciti, lo annovera fra le persone pericolose per la Sicurezza Pubblica e lo punisce col carcere”.
Ne conseguiva che: “…I vagabondi dichiarati legalmente sono puniti con tre mesi di carcere, mentre gli oziosi soggiacciono alla stessa pena solamente quando abbiano contravvenuto ad una precedente ammonizione…”.
L’invio al domicilio coatto, rispetto all’ammonizione, era un provvedimento esclusivamente amministrativo, subordinato per legge, alla condanna per contravvenzione dell’ammonizione.
Infatti: “Il Prefetto nell’interesse dell’ordine e della Sicurezza Pubblica, può sempre vietare al condannato come ozioso e vagabondo di stabilire il domicilio nella città od altri luoghi da lui scelti dopo che ha finito di espiare la pena”.
Con la nuova formulazione il domicilio coatto si doveva applicare, dal Ministero dell’Interno, per gravi circostanze di sicurezza e ordine pubblico, contro l’ozioso e il vagabondo già condannati, per un periodo di sei mesi fino a due anni. E da un anno a cinque anni sempre per le medesime figure, se recidive.
Infine; ai sensi dell’art 105 della Legge sulla Pubblica Sicurezza, le medesime fattispecie si potevano applicare anche alle persone sospette “..come grassatori, ladri, truffatori, borsaioli, ricettatori, manutengoli, camorristi, maffiosi, contrabbandieri, accoltellatori e tutti gli altri diffamati per crimini e per delitti contro le persone e le proprietà”.
In antitesi alle legge vigente all’epoca, esimi studiosi affermavano che “non si deve punire l’intenzione, il sospetto o la capacità del reato, ma il reato commesso” Secondo i detrattori di tale sistema, invece, il domicilio coatto era “…una istituzione sbagliata ma l’applicazione non potrebbe essere peggiore“, inoltre “…non si può considerare come ulcera benigna da potersi guarire con mezzi terapeutici, ma come cancro da estirparsi col ferro, se si vuole offrire al corpo sociale ammalato l’unico modo di risanare.”
Una volta ammoniti lo si era per tutta la vita, in quanto difficilmente si poteva uscire dal circolo vizioso in cui si era stati catapultati e che tale istituto era lasciato esclusivamente all’arbitrio dei carabinieri e dei poliziotti che lo utilizzavano, spesso in modo discutibile, ma soprattutto dei magistrati poco accorti che lo applicavano “de plano”, senza controllo né ingerenze.
Gli accoltellatori e l’assassinio del Procuratore del Re, Cesare Cappa
L’avvocato Cesare Cappa (cugino del Maggiore di P.S. Domenico Cappa, noto per aver scritto nel 1892 un libro autobiografico che narra anche del suo servizio svolto in varie città d’Italia), era Procuratore del Re presso il Tribunale di Ravenna. Egli fu mortalmente ferito da una pugnalata alle spalle, inferta da sconosciuti, la sera del 1° giugno 1868, mentre percorreva via Mariani, verso le 21,30, diretto a casa. Sembra che gli autori del tragico misfatto siano stati gli accoliti della setta degli accoltellatori di Ravenna per vendicare i compagni “che marcivano in prigione per colpa sua”.
Considerato, dopo la morte, dal quotidiano “Il Ravennate””Un martire del proprio dovere”, pochi giorni prima di morire così scriveva ad un suo amico: “…m’e venuto ripetutamente il pensiero di rinunciare a questo posto difficile, arduo e pericoloso e vivere quietamente nel mio paese… ma abbandonare un posto in queste circostanze e in un momento in cui c’è tanto bisogno di magistrati onesti, vigorosi e indipendenti da ogni camorra, mi parrebbe assai brutta cosa e tale da mettersi a paro della diserzione in tempo di guerra. Resto dunque perché il dovere mi impone di restare e la coscienza di giovare al mio paese mi è adeguato compenso alle fatiche e ai disgusti che provo”.
Anche dopo l’assassinio di Cappa, preannunciato da minacce anonime, vennero effettuati come già in circostanze analoghe, ma con impegno maggiore data l’eclatanza dell’omicidio dell’illustre tutore dell’ordine, arresti massicci forse operati senza indizi certi, in una città sottoposta, di fatto, a regime militare in seguito all’acquartieramento in quei luoghi del 4° Battaglione Bersaglieri, normalmente di stanza a Bologna.
Precedentemente al suo omicidio, in una relazione al Governo, Cappa si esprimeva così circa la situazione delle sette nella provincia romagnola: “In questa città e campagna non una, ma più sono le società, parecchie delle quali, costituite con apparenza di mutuo soccorso, di sociale convegno e di lecito scopo politico, altro non sono che tante specie di sette segrete contro la sociale sicurezza. Lo scrivente discorrerà delle più note fra le medesime e con la citazione dei fatti dimostrerà che, sebbene in apparenza dirette a buon fine, od almeno innocue, mirano allo scopo ricordato di somministrare il mezzo ad alcuni di primeggiare, ad altri di impunemente delinquere ed a molti di premunirsi contro i soprusi dei malvagi, associandosi loro o facendoseli amici…”.
“….Come nelle città così anche nelle campagne lo scopo è quello di osteggiare le autorità e la forza pubblica, e più ancora di aiutarsi a vicenda i soci nei loro pravi disegni, con quella solidarietà che ha scritto sulla bandiera: uno per tutti, tutti per uno”.
Ed ancora: “.…in questi paesi le persone del popolo sono quasi tutte armate, e sembrerebbe un disonore per un giovinetto non portare lo stile o la pistola; tanta è la passione delle armi che chi non ha denaro superfluo per comprarle si priva del necessario per mettere assieme all’uopo poche lire. Di qui i frequenti omicidi e ferimenti che altrove finirebbero in semplici alterchi e vie di fatto”.
Il Maggiore di P.S. Domenico Cappa (pura omonimia col procuratore del re di cui sopra), comandante delle Guardie di P.S. a Torino, Ravenna e Milano
Ravenna, Faenza e il circondario
Già ai tempi degli Austriaci, bande di accoltellatori sfidavano i rigori della giustizia.
Nella statistica dei reati dal 1849 al 1870, nel circondario di Faenza, vi furono 559 omicidi dei quali 305 senza colpevoli; nel 1867, 16; nel 1868, 15; nel 1869, 18; nel 1870, 10.
Cronache giornalistiche di quei tempi narrano di numerosi delitti, di furti, rapine, di taglieggiamenti e di rapimenti perpetrati oltre che a Ravenna anche nel suo circondario, in particolare a Faenza.
Nel 1865 il brigante “Maccione” rapinava i passanti sulla strada tra Ravenna e Godo, altri due banditi il “Baldrati” ed il “Ripa”, compivano le loro gesta nella zona di Lugo e in quella di Ravenna. Nella medesima zona a settembre dello stesso anno, ci furono due omicidi commessi da ignoti. A Faenza, nel mese di novembre fu ucciso un sottobrigadiere, altri ferimenti a Lugo e Solarolo. Nel gennaio 1866, a Ravenna, di nuovo un omicidio e in febbraio l’uccisione di una Guardia di P.S.. Successivamente da marzo a novembre un omicidio ed altri ferimenti.
Alcuni dati statistici renderanno meglio, e in sintesi, la gravità del fenomeno omicidiario e dei delitti in genere:
nel 1868, durante un dibattito parlamentare sui fatti avvenuti nelle Romagne, il Ministro dell’Interno, Cadorna, affermò che tra il 1° settembre 1867 e il 31 maggio 1868 si erano registrati, nella sola provincia di Ravenna, 1.119 reati tra i quali 64 omicidi e 237 grassazioni.
Nel 1871 la statistica dei reati, redatta dal medesimo Ministero, dichiarava che su una popolazione pari a 221.115 unità, si erano verificati 1.584 reati, 159 dei quali omicidi volontari.
In seguito all’aumento delle violenze nel 1862 il sindaco di Faenza, Achille Laderchi, si fece promotore di una rimostranza al Governo con questo tenore: “…perché voglia adottare più energiche e decisive misure atte a garantire la sicurezza pubblica”. La giunta comunale di quella città, nella seduta del 17 settembre 1862, propose ai comuni limitrofi Lugo, Bagnacavallo, Brisighella ed altri, di fare causa comune “per invocare provvedimenti efficaci ad arrestare i fatti delittuosi che frequentemente ed anche impunemente, si commettono dai malandrini alla campagna ed anche in pieno giorno”.
Nel trasmettere la richiesta egli espose un quadro della situazione sicuramente poco rassicurante, aggiungendo: “… le frequenti aggressioni, il numero crescente di fatti lacrimevoli a danno dei pacifici cittadini e dei viandanti hanno portato lo spavento ed il terrore in mezzo alla popolazione di questa provincia, tanto che niuno ormai azzarda di muoversi dalla città , o dai paesi, ed è costretto perfino di privarsi delle ricreazioni e dei piaceri della campagna……”.
Un episodio, avvenuto a Ravenna nel maggio 1867, rende assai bene il clima intossicato di quel periodo, l’aggressione a due Carabinieri di pattuglia da parte di tredici individui. Era successo che, questi “galantuomini”, erano stati fermati per schiamazzi notturni nel borgo Adriano, e che reagissero accoltellando i malcapitati tutori dell’ordine, apostrofandoli con gli appellativi di “boia, vigliacchi, assassini”. Al processo esposero le loro giustificazioni: “Volevamo cantare e urlare quanto ci piaceva, ché non erano più i tempi del Papa”.
E gli sforzi del governo, al fine di arginare il fenomeno, non tardarono ad arrivare, già erano stati inviati capaci funzionari e numerose truppe per controllare il territorio, ma evidentemente non bastarono. Ci fu una recrudescenza del fenomeno delittuoso, basti dire che nel gennaio 1868 furono commessi a Faenza tre omicidi in un solo giorno e, tempo dopo nel territorio di Lugo, otto omicidi in un mese e diciotto grassazioni in un giorno solo.
Vari tumulti si erano già verificati, verso la fine del 1868, in varie località romagnole, per protestare sulla tassa del macinato, qualche tempo dopo vere e proprie insurrezioni di ispirazione mazziniana videro il rinfocolamento degli odi politici e, in particolare, dell’omicidio politico inquadrando, dal 1870, prevalentemente nel territorio faentino l’attività “terroristica” delle sette.
La reazione governativa non si fece attendere, essa fu incessante, forse in alcuni casi inefficace perché affidata a funzionari e agenti (ma anche i carabinieri non scherzavano) inetti, inadeguati se non addirittura corrotti. In effetti nel 1871 le forze di polizia nel distretto di Faenza erano il doppio di quelle mediamente assegnate in altre provincie.
Da un articolo riportato sulla Gazzetta Piemontese del 17 maggio 1871 apprendiamo un episodio avvenuto a Ravenna e di quanto la situazione fosse esplosiva:“Racconta il Ravennate che nel giorno di domenica, avendo luogo in Borgo Adriano una festa religiosa in onore della Madonna del Soccorso, due guardie di P.S. procedettero all’arresto di un individuo che si trovava tra la folla. Mentre esse si avviavano col loro prigioniero verso la stazione dei carabinieri, diversi compagni del medesimo lo strapparono alle guardie, le quali però aiutate da parecchi carabinieri a, riuscirono a riprenderlo e condurlo nella Caserma davanti alla quale si era accalcata una gran massa di persone che urlava, fischiava e gettava sassi. In seguito a ciò, due carabinieri, altri dicono Aggiunti carabinieri, fattisi ad una delle finestre del piano superiore della loro Caserma, spararono diversi colpi sulla folla sottostante, senza pensare che se fra questa vi erano colpevoli, vi era pure una quantità di persone innocenti che solo il caso , o la curiosità aveva chiamato. Fatto sta che una povera giovane, un soldato di 2^ categoria che trovasi a Ravenna per la istruzione militare e tre altri borghesi, rimasero feriti dai proiettili esplosi. Questo fatto, aggiunge il giornale, che noi abbiamo narrato a seconda di quanto ci è stato riferito da persone degne di fede, che si trovavano presenti al tafferuglio, ha provocato nell’intera città una giusta indignazione; e perciò giova sperare che le competenti Autorità faranno giustizia, e sapranno punire chi, per ignoranza, o per imprudenza, o per cattiveria, ha abusato delle sue forze”.
Ma ancora nel giugno 1874, il Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Bologna, in una lettera indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia Vigliani, lo informava che ben 13 delitti erano avvenuti in provincia di Ravenna, tra il 23 marzo e il 2 giugno. Il 27 giugno, il medesimo Procuratore informava il Ministro dell’Interno, Cantelli, del fatto che a Ravenna e a Faenza, era stato organizzato un servizio di agenti di Pubblica Sicurezza travestiti da cacciatori.
In quattordici anni Ravenna ebbe ben dodici Prefetti, di volta in volta rapidamente sostituiti per incapacità, o per corruzione. Ce ne fu addirittura uno, nel 1874, che venne riconosciuto colpevole di brogli elettorali.
Uno dei rappresentanti delle Istituzioni che seppe distinguersi per capacità ed efficienza fu il Questore di Ravenna Luigi Serafini, a lui si deve l’eliminazione della setta degli “accoltellatori”. Avvalendosi di un delatore, uno degli accoliti della setta, Giovanni Resta, riuscì con numerosi arresti ad azzerarne i ranghi. Giuntovi nel marzo 1871, vi rimase per quattro anni in un ambiente politico dove, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il contrasto tra le forze moderate e quelle democratiche divenne sempre più manifesto, dissidi politici tra ferventi fazioni si accendevano e spesso “ci scappava il morto”. Come quella volta in cui in prossimità di Porta Alberoni, a Ravenna, durante il funerale del simpatizzante socialista Achille Spada, morto giovanissimo, nacque un tumulto tra polizia e internazionalisti e, durante gli scontri, decedette una Guardia di P.S.. Oramai erano permeate le idee dell’internazionale Socialista, sorta a Londra nel 1864, ad orientamento marxista, evolutesi successivamente in anarchiche (a Bologna, nel 1874 fallì una sollevazione capeggiata dall’anarchico Michail Bakunin), tutte orientate contro un governo che stava trasformandosi in capitalista, creando malessere nelle classi povere e sfruttate.
Nel marzo 1870, avvenne l’uccisione del Prefetto Militare della città di Ravenna, il Generale nizzardo Escoffier.
A seguito del deteriorarsi della situazione dell’ordine pubblico nella provincia di Ravenna, e per porre un freno alla delinquenza, che era riuscita, nonostante il precedente invio di militari poliziotti e carabinieri, a non essere eliminata o quantomeno limitata, si decise di accentrare le attribuzioni civili, di indirizzo politico e militari nelle mani di un’unica persona capace di gestire questo “grande potere”. Venne inviato dal Governo il Generale Escoffier, il quale si diede molto da fare per cercare di estirpare la piaga del malandrinaggio. Costui si dimostrò ligio ai propri doveri e zelante, al punto da applicare le disposizioni penali col massimo rigore, riuscendo ad assicurare alla giustizia numerose persone indiziate di omicidi, grassazioni e altri delitti.
L’assassinio del prefetto di Ravenna, Generale Carlo Pietro Escoffier
Carlo Pietro Escoffier, nato a Nizza il 29 giugno 1825, già pluridecorato (era stato ferito nella battaglia di S. Martino e questo gli valse una medaglia d’argento al Valor Militare), era giunto a Ravenna nel settembre del 1868 da Forlì, dove comandava una Brigata con il grado di Maggiore Generale. Tre mesi prima era avvenuto l’assassinio del Procuratore del Re Cesare Cappa, ed anche a seguito di questo efferato delitto fu presa, da Giovanni Lanza, la decisione di inviare un Prefetto che riunisse a se poteri civili e militari onde poter fronteggiare meglio la recrudescenza degli episodi delittuosi.
Il Generale attirò su di se le antipatie dei repubblicani ravennati e di quelli romagnoli, in quanto emanò vari provvedimenti molto restrittivi tra i quali spicca, per la sua singolarità, la chiusura anticipata dei locali pubblici. Concorse inoltre alla cattura del brigante “Gaggino” così chiamato perché “gagio”, rosso di capelli. Noto alle forze dell’ordine per la sua scaltrezza nel fuggire e nascondersi nei campi, tra le coltivazioni, oltre che per la sua crudeltà, aveva ucciso per pochi spiccioli un sacerdote. A seguito di una delazione, per intascare la taglia posta sulla sua testa, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri a Filetto nell’ottobre 1868.
Altri provvedimenti intrapresi furono: lo scioglimento, a Faenza, della “Società del Progresso”, della quale faceva parte anche Aurelio Saffi, colpevole di “aggregare uomini irrequieti e turbolenti facinorosi e rei”, e lo scioglimento della Guardia Nazionale (organo posto a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, militarmente organizzato, composto da volontari), probabilmente ritenuta corrotta o non idonea a fronteggiare tale frangente.
Altri metodi ritenuti “tirannici” vennero, da questi, intrapresi per ristabilire l’ordine nel circondario di Faenza dove, a detta della pubblica opinione, la situazione era, rispetto a Ravenna, di gran lunga peggiore. A riprova basti citare ad esempio le cronache cittadine dal 10 al 14 dicembre 1869, che registrarono tre feriti e un morto.
La stampa di parte progressista e repubblicana attaccò, dalle pagine dei propri giornali, i metodi dispiegati dal Prefetto, anche Giovanni Lanza che un tempo aveva proposto Escoffier, di fatto poi lo sconfessava in alcuni dibattiti parlamentari. Solo la stampa locale di parte moderata, ne enfatizzava le gesta e i risultati citando addirittura episodi precedenti: di come si fosse prodigato per impedire alla Polizia di sparare contro la folla a Forlì, durante un tumulto, oppure di come dispose, in occasione dell’omicidio di una Guardia di P.S., tale Ninfalone da Vicenza, fatto avvenuto il 7 novembre 1869 a Ravenna presso Porta Sisi, durante una zuffa tra alcuni giovani e guardie di P.S., la scarcerazione di 13 delle 16 persone che il Questore aveva fatto imprigionare.
Unico neo, del quale molto si rammaricava, tacciando di incapacità il Questore, fu l’episodio del furto di 44 franchi perpetrato nei suoi confronti da Angelo Forti, un soldato posto al suo servizio, il quale dopo l’episodio si rifugiò a Roma. In realtà non fu reso di dominio pubblico il fatto che il soldato, oltre al denaro, fece sparire alcune carte (sicuramente molto importanti) dall’ufficio di Escoffier, quasi certamente egli era una spia al soldo del governo clericale. Vane furono, infatti, le richieste di estradizione avanzate verso il governo papalino.
A seguito dell’episodio, si dovettero registrare numerosi trasferimenti di poliziotti da Ravenna verso altre sedi, voluti ed ottenuti dal Prefetto, il quale presupponeva, forse supportato da prove, connivenze della P.S. con i contrabbandieri locali, già avvenute in passato con le ex gendarmerie pontificie.
In un simile contesto maturò il suo omicidio, che tanto scalpore suscitò tra la popolazione ed ancor più nelle istituzioni.
Il delitto avvenne la mattina del 19 marzo 1870 nell’ufficio del Generale, a commetterlo il Questore di Ravenna Pio Cattaneo, reo confesso.
L’Ispettore di P.S. nativo di Novi Ligure, già avvocato, si era distinto in precedenza per la lotta senza quartiere che aveva ingaggiato nelle provincie di Avellino e Caserta, contro i briganti locali, addirittura presso quest’ultima cittadina si era visto insignire della qualifica di “cittadino onorario”. Risulta anche decorato, nel 1869 quando era Questore a Messina, di medaglia di bronzo al Valor Civile.
Durante il processo, l’ex poliziotto affermò di aver perso la testa dinanzi alla decisione di Escoffier di trasferirlo a Grosseto e sostituirlo con il Delegato Cesare Campadelli, suo stretto collaboratore. Questo era stato l’ultimo di una serie di atti ostili che avevano visto fronteggiare i due, già in altre circostanze erano avvenuti dissapori, come quella volta in cui il Generale fece scarcerare una parte degli arrestati a seguito dei fatti, già citati, del novembre 1869 avvenuti a Porta Sisi.
Durante la discussione precedente al delitto, il funzionario, al quale la propria reputazione e la carriera dovevano essere immensamente care, implorò il superiore di bloccare per qualche tempo il provvedimento, al fine di non farlo tacciare di infamia dai suoi dipendenti e dai cittadini. Escoffier ribatté minacciando di farlo arrestare dai Carabinieri e Cattaneo, giunto al culmine della momentanea pazzia, estratte due pistole, fece fuoco due volte contro il Generale, uccidendolo. Nella concitazione conseguente gli spari, cercò di far credere ad un incidente avvenuto mentre mostrava le armi al Prefetto, ma poco dopo messo alle strette confessò e fu arrestato.
Circa trenta giorni dopo fu celebrato il processo. Esso si concludeva, il 29 aprile alle 23,55, con la lettura della sentenza di condanna dell’imputato a vent’anni di lavori forzati e pene accessorie di legge. Dai resoconti del dibattimento si scopre che Cattaneo non presenziò in aula e che il verbale del suo interrogatorio fu, stranamente, dettato in carcere subito dopo l’arresto.
L’uccisione del Sottobrigadiere di P.S. Vincenzo Valli
Vincenzo Valli, nativo di Faenza, aveva 55 anni quando fu trovato morto in circostanze misteriose. Viene descritto dal Deputato Lodovico Caldesi, in una sua lettera al quotidiano il “Ravennate”, come “Veterano della Libertà” e “Sincero Patriota”. Il Valli, perseguitato sotto il governo clericale, dovette emigrare in Francia trovando lavoro nelle miniere e successivamente come operaio ferroviario. Dopo l’amnistia poté ritornare a Faenza, ma incurante dei rischi legati ai suoi sentimenti politici venne di nuovo perseguitato e accusato di omicidio, quindi condannato, assieme ad altri, ai lavori forzati a vita. Ottenne uno sconto di pena dopo che una deputazione di cittadini si recò dal Pontefice, per perorare la sua condizione: quattordici anni di Bagno Penale. Liberate le Marche, annesse al Regno d’Italia, fu liberato dalla prigione dove scontava la sua pena e tornò di nuovo dai suoi affetti a Faenza, come Patriota perseguitato poté ambire al posto di Guardia di P.S. e, poco tempo dopo, promosso Sottobrigadiere.
La sera dell’8 novembre 1865 venne assassinato da ignoti, con un colpo d’arma da fuoco. Non si hanno elementi certi se per motivi della sua attività lavorativa o per acrimonia di natura politica.
L’assassinio del Delegato di P.S. Cesare Campadelli
Cesare Campadelli, trasferito da Imola a Ravenna nel febbraio 1866, fu uno dei più valenti collaboratori del prefetto Escoffier. Laboriosamente raccolse le prove, interrogò gli indiziati e accertò i misfatti posti in essere dalla setta, mettendo in condizione la magistratura di istituire un processo e di giungere, successivamente alla sua morte, decretata per la sua troppa solerzia, alla condanna degli omicidi settari.
Il delitto avvenne il pomeriggio alle 15,00 del 4 aprile 1870 a Lugo. Subito dopo la morte di Escoffier, il quale lo aveva proposto per l’avanzamento di grado, era stato promosso Delegato di 1a classe e trasferito frettolosamente presso la Delegazione di Bologna perché si temeva per la sua vita. Aveva già spedito le masserizie e si accingeva a partire anch’egli con il treno delle 18,15. Si era congedato dal salutare un amico in strada Cortalunga e si incamminò verso la stazione. Arrivato nei pressi della piazza principale, venne affrontato da due individui che gli spararono due colpi di pistola che andarono a vuoto, questi misero quindi mano ai coltelli e gli assestarono numerosi colpi e poi lo percossero con i calci delle pistole e, vistolo oramai esanime a terra, si allontanarono in direzione della campagna. Il Campadelli spirava poco dopo l’arrivo delle Guardie di P.S., richiamate dagli spari.
Era disarmato perché aveva portato la sua arma dall’archibugiere che gli doveva fondere delle palle di piombo.
Le successive indagini, portarono all’arresto di un solo individuo che venne riconosciuto colpevole e, il 7 Maggio 1877, condannato ai lavori forzati a vita.
La morte della Guardia di P.S. Ninfalone (nome sconosciuto)
Liberamente tratto da una cronaca de “Il ravennate” del 10 novembre 1869.
Durante una pattuglia notturna per le vie di Ravenna, due Guardie di P.S. incontrarono degli schiamazzatori ubriachi, i poliziotti li invitavano a cessare gli schiamazzi e ne scaturiva un alterco che degenerava in una colluttazione. Essendo in numero superiore, gli avvinazzati riuscivano ad avere la meglio sui poliziotti disarmandoli e, subito dopo, si davano a precipitosa fuga, non prima di avere estratto, uno di questi, un lungo coltello che affondava nelle carni della povera guardia Ninfalone, di Vicenza, ferendolo mortalmente. Soccorso dal compagno e da alcuni colleghi passati lì nei pressi per caso, veniva trasportato all’ospedale dove decedeva l’8 novembre 1869, giorno successivo ai fatti.
Da notare nell’articolo che o c’è un refuso, oppure il servitore dello Stato non era degno neanche che il redattore si accertasse del nome di battesimo e lo trascrivesse.
La morte della Guardia di P.S. Fortunato Granucci
Fortunato Zaccaria Granucci, di Nicodemo e Marianna Meschinelli era originario di Pariana comune di Villa Basilica (LU). Nato il 13 marzo 1839, morì il 24 Settembre 1871 a Faenza, in uno scontro a fuoco con un gruppo di malviventi. La Guardia di P.S. Granucci, insieme a due suoi colleghi, le Guardie di P.S. Elia Marinelli e Desiderio Zucchi, era impegnata in un servizio di perlustrazione in una zona alla periferia della città romagnola dove, in una taverna, si stava svolgendo una festa. Giunti nei pressi dell’osteria, i tre vennero insultati da un nutrito gruppo di avventori del locale. I tre poliziotti invitarono alla calma i presenti, ma uno di questi si scagliò sul Marinelli, aggredendolo verbalmente e insultandolo pesantemente, tanto da costringere il poliziotto ad arrestarlo. Durante tale tentativo, uno degli altri avventori estrasse di tasca una pistola e fece fuoco contro il Marinelli, la pallottola però colpì alla testa il Granucci che era accorso in difesa del collega, uccidendolo. Nel frattempo altri individui si scagliarono contro la Guardia Zucchi, tentando di disarmarla nonostante la sua disperata resistenza. Il Marinelli intervenne quindi in suo soccorso, riuscendo a sottrarlo agli aggressori, dopo avere esploso numerosi colpi con la rivoltella d’ordinanza, ferendo almeno uno degli aggressori e costringendo il resto del gruppo a darsi alla fuga. Durante la notte vennero arrestate numerose persone, ritenute coinvolte nell’assassinio del Granucci.
Il 22 novembre 1871 solamente le Guardie Marinelli e Zucchi, vennero decorati, il primo di Medaglia d’Argento al Valor Militare, mentre il secondo, solamente con una menzione onorevole. Nulla per il povero Granucci.
L’episodio è stato raffigurato in una cartolina celebrativa della serie “Atti eroici delle Guardie di P.S.” edita dal Ministero dell’Interno e illustrata dal pittore Vittorio Pisani.
L’assassinio del Delegato di P.S. Gedeone Cavazzoni
Il Delegato di P.S. Gedeone Cavazzoni, veniva ferito mortalmente con due colpi di pistola alla schiena, la sera del 16 luglio 1872, a Faenza. A marzo dello stesso anno era stato trasferito presso la Delegazione di Alessandria per “autotutela”, perché aveva ricevuto numerose minacce anonime e si temeva per la sua incolumità.
Molto attivo a livello investigativo, vantò numerosi arresti operati nel circondario di Faenza.
Proprio per testimoniare in un procedimento penale contro alcuni malfattori faentini, appartenenti ad una setta, si recò a Ravenna. Trovandosi nelle vicinanze, dopo lo svolgimento dell’udienza, volle tornare dove aveva lavorato in precedenza, per rivisitarne i luoghi e, probabilmente, ritrovarsi con alcuni colleghi. Fu così che, verso le 19,30, mentre si trovava a passeggio, a due passi dalla piazza maggiore, in compagnia di altri Delegati di P.S. suoi amici, fu colpito alla schiena da due individui rimasti sconosciuti, che si diedero repentinamente alla fuga. Gli assassini, nonostante fossero inseguiti dai funzionari presenti, fecero perdere le loro tracce.
A seguito delle ferite riportate, il Cavazzoni decedeva il successivo 18 luglio.
Conclusioni.
Troviamo briganti già dalla fine del ‘700, motivati prevalentemente dalla povertà endemica, i quali spadroneggiavano nei territori dove era meno presente il controllo da parte delle istituzioni. Spesso goderono delle protezioni di coloro i quali ne subivano le vessazioni, per paura di rappresaglie. Questo consentì, per parecchio tempo, l’inefficacia degli strumenti messi in campo al fine di estirpare il fenomeno: quali esercito, forze di polizia e leggi speciali. La loro latitanza si interrompeva spesso in modo tragico, molto spesso catturati armi alla mano venivano giustiziati sul posto, come sancivano le leggi dell’epoca. Hanno lasciato in eredità, alle popolazioni, i miti e le leggende legate al territorio.
A differenza dei briganti, gli appartenenti alle sette provenivano quasi totalmente dagli ambienti repubblicani o mazziniani. Molto spesso soci o quadri dirigenziali delle società di mutuo soccorso, sorte a tutela dei diritti degli operai e dei contadini. Perseguitati dal Governo, ossessionato dal repubblicanesimo, che vedeva in loro dei sobillatori, alteratori della pace sociale, essi volevano sovvertire il Regno in Repubblica. Resisi conto dell’impossibilità e vistisi braccati dalla repressione governativa, spesso passarono coi briganti, e dove non uccisi in scontri a fuoco, qualora arrestati, come nel caso dei presunti associati alla setta degli accoltellatori, furono processati frettolosamente e, descritti ai cittadini come sanguinari assassini, condannati sulla scorta di prove non sempre certe.
Quale enorme cifra sia stata spesa per sostenere l’apparato statale, preposto al contrasto di questi fenomeni, non lo sapremo mai. Certo quei quattrini si sarebbe potuti spendere meglio.
Strano paese questo Regno d’Italia; monarchia costituzionale che ottenne l’Unità per mezzo dei garibaldini, gran parte dei quali erano giovani repubblicani o mazziniani. Parecchi di loro, laddove non morirono in battaglia prima, morirono dopo condannati a morte dallo stesso Stato che contribuirono a creare.
Per finire voglio mutuare un giudizio, non mio, ma di Pasquale Villari storico e letterato napoletano, deputato (1870) e poi senatore (1884), infine Ministro della Pubblica Istruzione (1891): “Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici…”.
Come dargli torto?