“Trasportato in ospedale con auto di passaggio…”
Nella continua ricerca dei nostri Caduti è capitato spesso di imbatterci in articoli di cronaca e addirittura nei fascicoli dei rilievi di incidenti stradali occorsi ai nostri Colleghi negli anni Cinquanta e Sessanta.
Pagine ingiallite di vecchi quotidiani scritte in linguaggio molto formale, vecchie “veline” battute a macchina in uno strettissimo “burocratese” (che al giorno d’oggi in certi uffici non è poi cambiato di molto) ci tramandano le descrizioni di una viabilità da terzo mondo, con le odierne strade statali ancora definite “lo stradale per….”, spesso in ghiaia e terra battuta. A deviare da esse si entrava poi in una sorta di terra di nessuno, fatta di stradine secondarie spesso tortuose, poco manutentate e – di notte – per nulla illuminate.
Eppure erano i famosi “itinerari” che gli agenti della Polizia Stradale dovevano percorrere tassativamente a qualunque ora del giorno e della notte, con qualsiasi condizione atmosferica. E sempre, sempre motomontati…. Erano tempi in cui lo “stradalino” era e doveva essere un tutt’uno con la moto, secondo una visione nata obsoleta già nel 1947, antico retaggio di strutture arcaiche ormai scomparse; erano tempi in cui al proprio rientro in caserma alla fine del turno lo “stradalino” si vedeva contare dal proprio comandante i chilometri percorsi, per vedere se effettivamente l’itinerario era stato rispettato, costasse quello che costasse. Anche la vita.
Erano i tempi delle famigerate ispezioni a sorpresa, anch’esse fatte a qualunque ora del giorno e della notte, spesso contraddistinte più dalla sadica voglia di disciplina: guai a farsi trovare con la divisa in disordine (e poco importa se poco prima eri stato a rilevare un incidente in mezzo al fango o alla polvere); guai a farsi trovare anche solo un metro fuori itinerario (abbiamo visto con i nostri occhi le “veline” con le punizioni perchè la pattuglia era stata trovata trenta metri fuori il limite territoriale imposto…); guai a farsi trovare senza quei ridicoli guanti “alla moschettiera” o senza casco, anche in pieno ferragosto… Guai, guai, solo guai.
E a chiedere un minimo di comprensione si era spesso “rimbalzati”, se non addirittura scherniti: una guardia di p.s. ci ha raccontato che, nell’iniziare il turno motomontato 19-01 sotto una fitta nevicata, si permise di chiedere al comandante di Sezione se avessero potuto fare servizio a bordo di autovettura; quel comandante fece portare le moto davanti all’ingresso della caserma, misurò l’altezza del manto nevoso e siccome non superava il cerchione metallico li fece uscire ugualmente con le moto…
Era la disciplina militare, già di per sè impegnativa, ma a volte resa ancora più ottusa da superiori gerarchici che con essa volevano solo sfogare le proprie frustrazioni. Certo, vi furono anche comandanti di sezione, sottosezione o distaccamento le cui figure ancora oggi vengono tramandate con paterno affetto. Ma l’attitudine alle punizioni era in generale più facile a trovarsi: come quel comandante di sezione che punì con 3 giorni di consegna una guardia aggiunta che aveva lasciato la mantella cerata ad asciugare appesa alla moto di servizio dopo essere rientrato da un turno fatto sotto un nubifragio. Quei 3 giorni di consegna però il militare non li scontò mai: morì due giorni dopo, schiacciato da un camion.
A tutto questo aggiungiamo la pressochè totale assenza di un servizio di pronto soccorso organizzato. Le ambulanze erano poche, concentrate negli ospedali dei grossi capoluoghi. Ma quando uscivi da essi, perchè l’itinerario ti portava lontano, eri in mano a Dio. Non c’erano numeri di emergenza da chiamare e spesso il telefono più vicino era quello del “posto pubblico telefonico” (un’osteria, una farmacia, una cantoniera dell’ANAS). Radio di bordo non ce n’erano, tanto che le guardie erano costrette a chiamare ogni ora in comando per dare la posizione e ricevere disposizioni sfruttando gli apparecchi telefonici appena citati.
Ed ecco quella frase ricorrente in quasi tutti gli articoli ingialliti di cronaca, e anche in qualche rapporto di servizio: “Prontamente soccorso dal collega di pattuglia, veniva avviato all’ospedale a bordo di un’auto di passaggio”. Quante vite si sarebbero potute salvare con un intervento di soccorso professionale? Probabilmente tante. Ma anche fosse stata una soltanto, sarebbe bastato.
I Caduti della Polizia Stradale sono in proporzione agli altri una cifra immensa: alla data attuale (settembre 2024) sono 424 a partire dal 1946 su 3647 a partire dal 1852: fatta la media? A parte pochi uccisi in conflitti a fuoco, colpi accidentali di pistola o mitra, malori o malattie di servizio, sono tutti caduti in incidenti stradali. Per quelli deceduti negli anni Cinquanta e Sessanta gli incidenti non derivati da investimento dipesero quasi sempre da cadute dalla motocicletta. Molte volte queste cadute non ebbero un effetto letale immediato: magari si trattò di una gamba rotta, o di traumi interni per i quali un soccorso celere e professionale avrebbe potuto evitare l’infausto decorso. Mettiamoci infine l’assoluta ignoranza nelle tecniche di pronto soccorso (come immobilizzare un arto fratturato, come distinguere un trauma alla colonna vertebrale o i sintomi di una commozione cerebrale…) e il trasporto a bordo di un mezzo non idoneo (sui sedili posteriori di una “Topolino” o sulle panche del cassone di un autocarro), e la frittata era fatta. C’era solo quella buona volontà, quell’attitudine del buon samaritano che però in molti casi fu un rimedio peggiore del male: la caduta dalla moto, il collega a terra, l’onnipresente “auto di passaggio” in cui caricare in fretta e furia l’infortunato, la corsa a rotta di collo in ospedale…
Oggi, quando basta una telefonata e nel giro di pochi minuti arrivano ambulanze, elicotteri, Vigili del Fuoco, medici rianimatori, una realtà come quella descritta sembra perfino impossibile. Eppure deve fare riflettere su quanto quegli itinerari che si doveva percorrere avanti e indietro come criceti sulla ruota fossero più pericolosi del più incallito rapinatore. Perchè una banale caduta poteva non farti rientrare più a casa…. nemmeno su un’auto di passaggio…
la mentalità del “meglio questo che niente” che portava a “caricare” il paziente senza seguire neppure la logica di base quella che dice ad esempio, da sempre, che in presenza di sangue dall’orecchio è meglio non muovere il paziente, e questa mentalità (parlo per diretta conoscenza del problema) è proseguita, sembra una eresia a dirlo, specie in luoghi nemmeno troppo lontani dalle città fino a una dozzina di anni fa e anche meno, quando pur di coprire il turno in piccole realtà (e ce ne sono tante soprattutto nell’appennino ligure) veniva “raccattato” chiunque mostrasse un minimo di interesse verso la collettività. si è arrivati al punto per riuscire a far breccia in questa mentalità figlia dei periodi di cui narrate (rischiando di perdere volontari ma a quel punto era il male minore) ad aggiungere tra le lezioni del corso di soccorritore, sia propedeutico interno che regionale 118, quella che verteva sulla responsabilità civile del soccorritore per i danni procurati, per far capire che è il contrario ossia meglio non far nulla se non chiamare i soccorsi piuttosto di fare dei danni